AVVOCATO PENALISTA :STALKING ATTI PERSECUTORI stalking art 612 bis cp
CASALECCHIO DI RENO, SAN LAZZARO DI SAVENA ,VALSAMOGGIA, CASTEL SAN PIETRO TERME, SAN GIOVANNI IN PERSICETO ,BUDRIO PIANORO MEDICINA
STALING TRA CONIUGI
ATTI PERSECUTORI stalking art 612 bis cp
Giova in proposito premettere, in via generale, che con l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 612 bis cod. pen. il legislatore ha voluto, prendendo spunto dalla disciplina di altri ordinamenti, colmare un vuoto dì tutela ritenuto inaccettabile rispetto a condotte che, ancorché non violente, recano un apprezzabile turbamento nella vittima.
Il legislatore ha preso atto però che la violenza (declinata nelle diverse forme delle percosse, della violenza privata, delle lesioni personali, della violenza sessuale) spesso è l’esito di una pregressa condotta persecutoria; pertanto, mediante l’incriminazione degli atti persecutori si è inteso in qualche modo anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisiopsichica attraverso l’incriminazione dì condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie per così dire minori, quali la minaccia o la molestia alle persone. È peraltro utile ricordare come, per il consolidato insegnamento di questa Corte, integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte tra quelle descritte dall’art. 612 bis cod.pen., come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 46331 del 5 giugno 2013, D. V., Rv. 257560). Invece, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato d’ansia e di paura che è indicato come l’evento naturalistico del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma in esame, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi: e ciò in aderenza alla volontà del legislatore il quale, infatti, non ha lasciato spazio alla configurazione di una fattispecie solo “eventualmente” abituale (Sez. 5, n. 48391 del 24/09/2014, C, Rv. 261024).
Il delitto, inoltre, è configurabile anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto,
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a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 33563 del 16/06/2015, B, Rv. 264356)
Trattandosi di reato abituale
è la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza ed in tal senso l’essenza dell’incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo.
È dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività
ed è per l’appunto alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato. In tale ottica il fatto che tale evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui repressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo dei disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’art. 612 bis cod. pen.
Indubbiamente l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T, Rv. 262636).
Va detto, peraltro, che, ai fini della individuazione dell’evento cambiamento delle abitudini di vita
(che – come si dirà più avanti- si è verificato nel caso in esame), occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate. (Sez. 5, n. 24021 del 29/04/2014, G, Rv. 260580).
Nè appare decisivo il ristretto ambito temporale in cui le condotte si erano consumate posto che questa Corte ha già avuto modo di affermare che è configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale, una sola giornata, sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 38306 del 13/06/2016, Rv. 267954).
Tanto più, allora, quando si sia accertato, come nel caso odierno, che le condotte contestate erano state commesse nel giro di una ventina di giorni e, quantomeno per un tempo analogo, avevano causato alla vittima il riferito stato d’ansia, oltre che il denunciato mutamento delle abitudini di vita.
I principi secondo cui, ai fini della integrazione del reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) non si richiede l’accertamento di uno stato patologico
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, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima (Sez. 5, n. 18646 del 17/02/2017).
Per quanto concerne, poi, il breve arco temporale nel quale le condotte sono state poste in essere, la Corte ha più volte evidenziato come sia configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto (anche nell’arco di una sola giornata), a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale, sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 38306 del 13/06/2016).
Invero il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., la cui introduzione quale figura autonoma di illecito penale, intervenuta a seguito della entrata in vigore del decreto legge n. 11 del 2009, convertito con modificazioni, con legge n. 38 del 2009, ha destato non poche perplessità in seno alla dottrina penalistica, a causa della tecnica normativa adottata, non scevra di una qualche indeterminatezza nella descrizione della fattispecie, può, in prima approssimazione, essere ritenuto un reato plurioffensivo in esito alla commissione del quale – realizzata attraverso la reiterazione di condotte minacciose o comunque moleste, atte pertanto a ledere di per sé la capacità di autonomamente determinarsi del soggetto passivo, ove si tratti di minacce, ovvero, nel caso in cui si tratti di molestie, a danneggiare altri valori comunque penalmente rilevanti – si determina a carico del soggetto passivo una serie di possibili esiti, quali, alternativamente, un grave e perdurante stato di ansia, il fondato timore per la incolumità personale propria, di un prossimo congiunto o di persona unita al soggetto passivo da un legame affettivo o, infine, la alterazione delle proprie abitudini di vita.
È di tutta evidenza che la struttura del reato di atti persecutori
sia costituita da una pluralità di azioni a contenuto minatorio o integranti molestie (per tali dovendosi, peraltro, intendere non esclusivamente le condotte rilevanti ai sensi dell’art. 660 cod. pen.: Corte di cassazione, Sezione V penale, 24 marzo 2016, n. 12528), causalmente orientate, ed obbiettivamente in tal senso efficienti, alla verificazione di uno degli eventi sopra indicati.
È egualmente evidente che, laddove non siano ravvisabili gli estremi della violazione dell’art. 612-bis cod. pen. perché ad esempio, le condotte non hanno raggiunto quel coefficiente di intensità nella reiterazione necessario per la integrazione del reato oppure nel caso in cui esse non abbiano determinato a carico del soggetto passivo l’evento tipico del reato, non per questo la condotta dell’agente non potrà essere sussunta entro il paradigma normativo ora del reato di cui all’art. 612 cod. pen. ora di quello di cui all’art. 660 cod. pen., ora di altro reato, necessariamente caratterizzato dalla minore gravità rispetto agli atti persecutori, il cui effetto accessorio, derivante proprio dalla ripetizione delle condotte, sarebbe potuto essere uno di quegli eventi elencati all’art. 612bis cod. pen. cui prima si è fatto cenno.
La giurisprudenza di legittimità ha spiegato che, ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori, non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell’agente (Sez. 5, n. 47195 del 06/10/2015 – dep. 27/11/2015, P.M. in proc. S., Rv. 265530; caso in cui la S.C. ha ritenuto irrilevante il fatto che la persona offesa non avesse riferito espressamente di essere impaurita, alla luce dei certificati medici sulle lesioni subite, delle annotazioni di polizia giudiziaria sul suo stato di esasperazione e spavento, dei messaggi sms di minaccia). Nel delitto previsto dall’art. 612-bis c.p., che ha natura abituale, l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice (Sez. 5, n. 54920 del 08/06/2016 – dep. 27/12/2016, G, Rv. 269081).
Nel caso in esame, la motivazione circa la sussistenza dell’evento, in relazione al periodo ritenuto dal giudice di appello per la responsabilità dell’imputato, è carente, perchè, dopo aver riconosciuto che l’epoca dei fatti in contestazione doveva essere suddivisa in due periodi, e dopo aver escluso la sussistenza in D.F. di uno stato di ansia e di paura per il primo di detti periodi, non spiega da quali elementi dovrebbe ricavarsi che per il secondo di essi (compreso fra il 22 aprile e il 2 maggio 2014) in relazione al quale è stata affermata la responsabilità dell’imputato per il reato di atti persecutori, dovrebbe ritenersi che D.F. abbia riportato, a causa della condotta dell’imputato, quello stato di ansia e di paura che la norma incriminatrice richiede per la configurabilità del reato. In altri termini, il giudice di appello, nell’affermare il carattere persecutorio degli atti compiuti nel secondo periodo, ha manifestato di aver ritenuto la sussistenza nella vittima, per tale periodo, quello stato di ansia e di paura che ha negato per il primo periodo, ma non ha chiarito quali siano le basi fattuali alle quali ancorare l’assunto condannatorio.
2. Il secondo motivo, ribadito con il secondo dei motivi nuovi e riguardante l’aggravante di cui all’art. 612-bis c.p., comma 2, è infondato. Non può essere condivisa la prospettazione del ricorrente nei termini esposti nel ricorso (di cui al punto 2.2. del “fatto”): in realtà, risponde ad una precisa esigenza di chiarezza l’inserimento della specificazione “anche senza convivenza” in quest’ultima norma, che prevede l’aggravamento del reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p. se vi è o vi è stata relazione affettiva fra l’agente e la persona offesa. La precisazione normativa ha la sua ratio, chiaramente emergente dal testo e ricollegabile alla particolare struttura del reato di violenza sessuale, nella necessità di evitare che possa revocarsi in dubbio la configurabilità dell’aggravante in mancanza della convivenza. Se la norma non avesse previsto le parole evidenziate, si sarebbe potuto ritenere, proprio in considerazione dell’attinenza del reato di cui all’art. 609-bis c.p. alla sfera sessuale ed alle connesse particolarità, che solo in presenza di una relazione affettiva caratterizzata da convivenza fosse possibile ravvisare l’aggravante, ancorata al riconoscimento di un grado maggiore di offensività della condotta rispetto a quella dell’ipotesi semplice.
La medesima esigenza di specificazione non si ravvisa, invece, per la previsione normativa di cui all’art. 612-bis c.p., comma 2, che prevede l’aggravante del reato di atti persecutori commesso, fra l’altro, da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. Pur in mancanza della precisazione normativa sulla configurabilità dell’aggravante “anche senza convivenza”, infatti, l’indifferenza della situazione di convivenza rispetto a quella di non convivenza emerge comunque dalla pertinenza del reato a sfera diversa da quella sessuale.
3. Il terzo motivo, riguardante il reato di incendio, non è fondato.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il discrimine tra il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) e quello di incendio (art. 423 c.p.) è costituito dall’elemento psicologico del reato. Nell’ipotesi prevista dall’art. 423 c.p. esso consiste nel dolo generico, cioè nella volontà di cagionare un incendio, inteso come combustione di non lievi proporzioni, che tende ad espandersi e non può facilmente essere contenuta e spenta, mentre il reato di cui all’art. 424 c.p. è caratterizzato dal dolo specifico, consistente nel voluto impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare, senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di siffatto evento.
Pertanto, nel caso di incendio commesso al fine di danneggiare, quando a detta ulteriore e specifica attività si associa la coscienza e la volontà di cagionare un fatto di entità tale da assumere le dimensioni previste dall’art. 423 c.p., è applicabile quest’ultima norma e non l’art. 424 c.p., nel quale l’incendio è contemplato come evento che esula dall’intenzione dell’agente (Sez. 5, n. 1697 del 25/09/2013 – dep. 16/01/2014, Cavallari, Rv. 258942).
Il reato di danneggiamento seguito da incendio richiede, come elemento costitutivo, il sorgere di un pericolo di incendio, sicchè non è ravvisabile qualora il fuoco appiccato abbia caratteristiche tali che da esso non possa sorgere detto pericolo; per cui, in questa eventualità o in quella nella quale chi, nell’appiccare il fuoco alla cosa altrui al solo scopo di danneggiarla, raggiunge l’intento senza cagionare nè un incendio nè il pericolo di un incendio, è configurabile il reato di danneggiamento, mentre se detto pericolo sorge o se segue l’incendio, il delitto contro il patrimonio diventa più propriamente un delitto contro la pubblica incolumità e trovano applicazione, rispettivamente, gli artt. 423 e 424 c.p. (Sez. 2, n. 47415 del 17/10/2014 – dep. 18/11/2014, Giagnoni, Rv. 260832; fattispecie in cui la Corte ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto gli imputati responsabili del reato di cui all’art. 424 c.p., avendo accettato il rischio di provocare l’incendio di una sala da bowling, avuto riguardo ai mezzi impiegati e all’entità dei danni verificatisi).
Ciò posto in astratto, deve osservarsi che nel caso in esame il giudice di appello ha chiaramente spiegato, senza incorrere in alcun errore giuridico nè in manifesta illogicità, l’inverosimiglianza della tesi difensiva che l’imputato non si fosse almeno rappresentato il pericolo che il fuoco divampasse raggiungendo le auto in prossimità di quella da lui avuta di mira. E il convincimento del giudice di appello in proposito risulta congruamente motivato, perchè poggia sul rilievo che l’imputato utilizzò del liquido infiammabile e diresse la propria condotta verso un contenitore di carburante.