AGENTI ASSICURATIVI APPROPRIAZIONE INDEBITA

AGENTI ASSICURATIVI APPROPRIAZIONE INDEBITA

L’art. 646 c.p. indica, quali possibili oggetti dell’appropriazione indebita, il denaro o le cose mobili.

Come recentemente osservato da questa Corte, “per cosa mobile deve intendersi qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione e che sia in grado di spostarsi autonomamente ovvero di essere trasportata da un luogo ad un altro, compresa quella che, pur non mobile originariamente, sia resa tale mediante l’avulsione o l’enucleazione dal complesso immobiliare di cui faceva parte” (Cass. 11 maggio 2010, n. 20647). La nozione penalistica di cosa mobile non coincide quindi con quella civilistica, rivelandosi per certi aspetti più ridotta, in particolare laddove non considera cose mobili le entità immateriali – come le opere dell’ingegno ed i diritti soggettivi – che, invece, l’art. 813 c.c., assimila ai beni mobili. Tale nozione non è dunque comprensiva dei diritti soggettivi in genere e dei crediti in particolare che, in quanto beni immateriali, non sono suscettibili di fisica appropriazione.

L’espressa menzione del denaro potrebbe, a rigor di termini, apparire pleonastica, essendo anch’esso una cosa mobile. Ed invece, questa specificazione serve a chiarire che anche il danaro può costituire oggetto del reato di appropriazione indebita, nonostante la sua ontologica fungibilità che, sotto il profilo degli effetti civili, comporta l’immediato trasferimento della proprietà unitamente al possesso, con l’obbligo eventualmente previsto dal titolo di restituire il tantundem. Dal punto di vista penalistico, invece, proprio in virtù della precisazione contenuta nell’art. 646 c.p. al trasferimento del possesso non si accompagna necessariamente anche quello della proprietà, come accade nei casi di deposito, di custodia o di consegna del danaro con un preciso vincolo di scopo: in questi casi il possesso del danaro non conferisce il potere di compiere atti di disposizione non autorizzati o, comunque, incompatibili con il diritto poziore del titolare del denaro e ove ciò avvenga si commette il delitto di appropriazione indebita (Cass. 25 ottobre 1972, n. 4584).

 

avvocato penalista Bologna
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE – SENTENZA 13 settembre 2011, n.33839 – Pres. Fiandanese – est. D’Arrigo

Fatto e diritto

Con sentenza del 12 ottobre 2010 la Corte d’appello di Bari – riformando in toto la sentenza pronunciata in data 30 aprile 2008 dal Tribunale di Trani – assolveva S.P. dal reato di appropriazione indebita dell’importo di Euro 73.262,16 consistente in premi assicurativi riscossi dai propri subagenti e che, nella qualità di agente, avrebbe dovuto corrispondere alla compagna assicurativa Progress Assicurazioni s.p.a. La corte territoriale osservava, in particolare, che non vi era prova che il S. avesse mai incassato quei premi assicurativi – risultando, al contrario, che i subagenti erano stati inadempienti – e che quindi non sarebbe ravvisabile l’indebita appropriazione degli stessi.

Avverso tale pronunzia ha proposto appello la parte civile Progress Assicurazioni s.p.a. (nel frattempo posta in l.c.a.), allegando due motivi. Col primo, la parte civile contesta il concetto restrittivo e strettamente materiale di ‘possesso’ fatto proprio dalla Corte d’appello, osservando che il S., pur non detenendole materialmente, aveva comunque la giuridica disponibilità di quelle somme, in quanto vantava corrispondenti crediti nei confronti dei subagenti obbligati nei suoi confronti.

Col secondo motivo il provvedimento impugnato è censurato sub specie di vizio di motivazione, per il fatto di aver prestato maggior credito alla versione dei fatti fornita dall’imputato – secondo cui i subagenti erano a loro volta tutti inadempimenti -piuttosto che a quanto dichiarato in proposito da alcuni dei testimoni escussi (in particolare, i testi R.L. e C.N.).

Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

I due motivi devono essere esaminati in ordine invertito, in quanto non vi sarebbe ragione di discutere dell’ampiezza del concetto di ‘possesso’ penalmente rilevante se si ritenesse comprovato che il S. ricevette materialmente il denaro da parte dei suoi subagenti. La questione assumerebbe rilievo solamente se si prestasse fede alla versione opposta, fatta propria dai giudici di appello, secondo cui l’imputato non incassò mai dai subagenti le somme che avrebbe dovuto riversare alla compagnia assicurativa.

Ciò posto, il denunciato vizio di motivazione non sussiste. La deposizione dei testi R. e C., di cui la Corte d’appello non avrebbe tenuto debito conto, non avalla in modo univoco la tesi sostenuta dalla parte civile. In particolare, il teste R., ispettore amministrativo della Progress Assicurazioni s.p.a., ha dichiarato di aver accertato che l’agenzia di S. presentava “un saldo di cassa per rimesse di polizze pagate dai clienti è non versate alla compagnia” di circa Euro 73.263,00. La deposizione nulla dice circa i rapporti fra il S. ed i subagenti ed il teste non precisa se gli importi riscontrati contabilmente erano nella materiale disponibilità dell’imputato. L’uso dell’espressione “saldo di cassa” non è, da solo, indicativo della disponibilità di denaro contante, non essendo certo che l’espressione sia stata usata in senso tecnico ed anzi trasparendo dal tenore complessivo della deposizione che quell’importo costituiva solo una risultanza contabile.

La teste C., direttore commerciale della Progress Assicurazioni s.p.a., ha invece espressamente dichiarato di aver avuto notizie di problemi intercorsi fra il S. ed almeno uno dei suoi subagenti, ma ha liquidato la questione osservando “comunque questi sono fatti che alla Compagnia non riguardano perché il rapporto è diretto con l’agente e l’agente risponde dei suoi rapporti con il subagente”. La tesi è stata poi avallata dal giudice di primo grado, che ha ritenuto l’irrilevanza dei rapporti interni fra l’agente ed i subagenti sulla base della clausola contenuta nell’art. 6 del contratto di agenzia. Ma, all’evidenza, la clausola che pone la responsabilità per i fatti dei subagenti in capo all’agente opera sul piano dell’inadempimento civilistico e non interferisce con la ricostruzione in punto di fatto ritenuta dalla Corte d’appello.

Nella sentenza di appello – che ha riformato quella di primo grado – non vi è quindi alcun travisamento dei fatti, dal momento che le risultanze processuali indicate in ricorso non depongono in modo univoco nel senso sostenuto dalla parte civile.

Questa Corte ha, infatti, ripetutamente affermato che ricorre il vizio di motivazione illogica o contraddittoria solo quando emergono elementi di illogicità o contraddizioni di tale macroscopica evidenza da rivelare una totale estraneità fra le argomentazioni adottate e la soluzione decisionale (Cass. 25 maggio 1995, n. 3262).

In altri termini, occorre che sia mancata del tutto, da parte del giudice, la presa in considerazione del punto sottoposto alla sua analisi, talché la motivazione adottata non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui la decisione è fondata e non contenga gli specifici elementi esplicativi delle ragioni che possono aver indotto a disattendere le critiche pertinenti dedotte dalle parti (Cass. 15 novembre 1996, n. 10456).

Queste conclusioni restano ferme pur dopo la legge n. 46 del 2000 che, innovando sul punto l’art. 606 lett. e) c.p.c., consente di denunciare i vizi di motivazione con riferimento ad ‘altri atti del processo’: alla Corte di cassazione resta comunque preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi o diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa, dovendosi essa limitare a controllare se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito (ex plurimis: Cass. 1 ottobre 2008 n. 38803).

Quindi, pur dopo la novella, non hanno rilevanza le censure che si limitano ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie, dal momento che il sindacato della Corte di cassazione si risolve pur sempre in un giudizio di legittimità e la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione non può essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite. La Corte, infatti, non deve accertare se la decisione di merito propone la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (v. Cass. 3 ottobre 2006, n. 36546; Cass. 10 luglio 2007, n. 35683; Cass. 11 gennaio 2007, n. 7380).

Alla luce di tali principi e considerato l’effettivo contenuto degli elementi di prova indicati in ricorso, deve escludersi che la sentenza di appello contenga vizi di motivazione. La tesi della parte civile ricorrente costituisce solamente una prospettazione alternativa di merito, non rilevante in sede di legittimità.

Il secondo motivo di ricorso deve essere quindi rigettato.

Tali conclusioni impongono l’esame del primo motivo di ricorso che – come s’è detto in precedenza – è in realtà logicamente subordinato al rigetto della censura relativa al vizio di motivazione.

Nella sentenza di primo grado – poi riformata in appello – l’inadempimento civilistico è stato ritenuto perfettamente sovrapponibile alla fattispecie penale di appropriazione indebita. La parte civile sostiene che bene avrebbe deciso il giudice di primo grado ed invece sarebbe erronea la sentenza di appello, in quanto fondata su “un’interpretazione del concetto di possesso estremamente restrittiva e dunque erronea”. In particolare, afferma che l’imputato, pur senza aver riscosso le somme dovutegli dai subagenti, ne avesse comunque la disponibilità giuridica “atteso che le somme di denaro dovute alla compagnia assicurativa offerivano all’insieme dei beni nella disponibilità di quest’ultimo, disponibilità caratterizzata dalla titolarità del diritto di credito vantata nei confronti dei subagenti”. Si afferma, in altri termini, che la conclusione del contratto assicurativo, comprensivo del premio intascato dal subagente, “determina la signoria piena dell’agente sul credito riscosso e dunque sull’esistenza -nel senso giuridico – della somma indicata, indipendentemente dalla materiale apprensione in capo”.

La questione ruota, in apparenza, intorno al concetto giuridico di ‘possesso’ rilevante nella fattispecie di cui all’art. 646 c.p.. Ma, a ben vedere, l’argomento sviluppato dalla parte civile conduce alla domanda conclusiva se ci si possa indebitamente appropriare anche dei crediti altrui nell’ambito di rapporti quali mandato, agenzia ed affini. O, più esattamente, se il potere dell’agente di riscuotere (art. 1744 c.c.) i crediti pecuniari per conto del preponente implichi in capo al primo la giuridica disponibilità della somma, tanto da potersene indebitamente appropriare prima ancora – o comunque a prescindere dal fatto – di aver materialmente riscosso la prestazione.

Al quesito deve essere data risposta negativa.

L’art. 646 c.p. indica, quali possibili oggetti dell’appropriazione indebita, il denaro o le cose mobili.

Come recentemente osservato da questa Corte, “per cosa mobile deve intendersi qualsiasi entità di cui sia possibile la fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione e che sia in grado di spostarsi autonomamente ovvero di essere trasportata da un luogo ad un altro, compresa quella che, pur non mobile originariamente, sia resa tale mediante l’avulsione o l’enucleazione dal complesso immobiliare di cui faceva parte” (Cass. 11 maggio 2010, n. 20647). La nozione penalistica di cosa mobile non coincide quindi con quella civilistica, rivelandosi per certi aspetti più ridotta, in particolare laddove non considera cose mobili le entità immateriali – come le opere dell’ingegno ed i diritti soggettivi – che, invece, l’art. 813 c.c., assimila ai beni mobili. Tale nozione non è dunque comprensiva dei diritti soggettivi in genere e dei crediti in particolare che, in quanto beni immateriali, non sono suscettibili di fisica appropriazione.

L’espressa menzione del denaro potrebbe, a rigor di termini, apparire pleonastica, essendo anch’esso una cosa mobile. Ed invece, questa specificazione serve a chiarire che anche il danaro può costituire oggetto del reato di appropriazione indebita, nonostante la sua ontologica fungibilità che, sotto il profilo degli effetti civili, comporta l’immediato trasferimento della proprietà unitamente al possesso, con l’obbligo eventualmente previsto dal titolo di restituire il tantundem. Dal punto di vista penalistico, invece, proprio in virtù della precisazione contenuta nell’art. 646 c.p. al trasferimento del possesso non si accompagna necessariamente anche quello della proprietà, come accade nei casi di deposito, di custodia o di consegna del danaro con un preciso vincolo di scopo: in questi casi il possesso del danaro non conferisce il potere di compiere atti di disposizione non autorizzati o, comunque, incompatibili con il diritto poziore del titolare del denaro e ove ciò avvenga si commette il delitto di appropriazione indebita (Cass. 25 ottobre 1972, n. 4584).

Anche il denaro, pertanto, deve essere inteso nella sua accezione materiale di bene mobile, e non come utilità ‘mediata’, ossia quale oggetto della prestazione di un debito pecuniario. La espressa dicitura contenuta nell’art. 646 c.p. trova la sua giustificazione nell’esigenza di superare il principio civilistico valevole per le cose fungibili, ma non sta affatto a significare che l’appropriazione indebita possa riguardare, oltre le cose mobili, anche i crediti pecuniari.

Infatti, poiché la fattispecie di cui all’art. 646 c.p. presuppone – quale elemento minino essenziale della condotta incriminatrice – l’atto materiale dell’appropriazione, l’oggetto dell’azione delittuosa deve essere costituito necessariamente da un bene mobile suscettibile di essere fisicamente appreso. Tali non si rivelano i diritti di credito, a meno che non siano ‘incorporati’ in un documento (come nel caso dei titoli di credito).

La questione illustrata nel ricorso non è quindi pertinente. La delimitazione della nozione penalistica di ‘possesso’ giova a circoscrivere l’area dei beni di cui l’agente si può indebitamente appropriare da quelli che altrimenti costituiscono oggetto di furto. Si tratta, quindi, di una qualificazione che traccia un sottoinsieme all’interno delle cose mobili o del denaro; un concetto che, per dirla in altri termini, deve essere applicato dopo quello di ‘bene mobile’. Non tutti i beni giuridici di cui l’agente ha la disponibilità giuridica sono suscettibili di appropriazione indebita, ma solo i beni mobili ed il denaro.

Il ragionamento esposto nel ricorso in esame non tiene, invece, conto di quest’ultimo passaggio ed indica la relazione di ‘possesso’ fra il soggetto attivo ed il bene come l’unico criterio selettivo delle cose suscettibili di appropriazione indebita; in tal modo si giunge quindi all’inappropriata conclusione che i crediti, di cui l’agente ha la giuridica disponibilità, possono essere indebitamente appresi. Si trascura però di considerare il dato decisivo che il bene, ancor prima che posseduto dall’agente, deve essere astrattamente suscettibile di fisica apprensione e quindi deve essere un bene materiale.

In conclusione, deve essere affermato il seguente principio di diritto. In tema di appropriazione indebita, il bene oggetto del reato deve essere costituito dal denaro o da altro bene mobile comunque suscettibile di fisica apprensione. Pertanto, difettando il carattere della materialità, non sono suscettibili di appropriazione indebita i crediti di cui taluno abbia la giuridica disponibilità per conto d’altri (come può avvenire nei casi di mandato, commissione, agenzia, mediazione, ecc), a meno che tali crediti non siano divenuti equiparabili alle cose mobili per effetto della ‘incorporazione’ in un documento (ad esempio, un titolo di credito).

Piuttosto, commette il reato di cui all’art. 646 c.p. l’agente che, solo dopo aver effettivamente riscosso la prestazione, se ne appropri senza rivolgerla in favore all’avente diritto.

Poiché la sentenza di appello si è sostanzialmente conformata al principio testé esposto, il ricorso deve essere rigettato anche sotto questo profilo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali.