Malattia professionale –SENTENZA TRIBUNALE TREVISO- Decesso del lavoratore – Risarcimento del c.d. danno terminale

Malattia professionale –SENTENZA TRIBUNALE TREVISO– Decesso del lavoratore – Risarcimento del c.d. danno terminale – Caratteri del danno e presupposti di risarcibilità – Decorso di un apprezzabile lasso temporale tra le lesioni colpose e la morte del soggetto leso

Il c.d. “danno da perdita da vita” esso è stato ritenuto sussistente in capo al danneggiato defunto, e quindi risarcibile jure hereditatis a favore degli eredi, dalla sentenza della Corte di Cassazione 1362/2014.

Tale pronuncia ha, tuttavia, rappresentato la manifestazione di un orientamento senz’altro minoritario, e, in argomento si sono espresse in senso contrario una pluralità di sentenze, tanto precedenti che successive, tra le quali la sentenza resa a Sezioni Unite 15350 del 2015. Tale sentenza ha richiamato l’orientamento più risalente della Corte di Cassazione, espresso con la pronuncia anch’essa a Sezioni Unite 3475 del 1925 che ha escluso la configurabilità del danno da propria morte in quanto l’evento in ipotesi determinante il danno si verifica, per necessità, quando il soggetto, che si pretende essere lesionato, non è più, esprimendo tale concetto con le seguenti parole: “se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l’esistenza di un subbietto di diritto”.

Ha argomentato circa la conformità di tale orientamento rispetto alla giurisprudenza costituzionale di cui alla sentenza 372/1994 con la quale la Corte Costituzionale ha escluso la contrarietà a Costituzione dell’interpretazione degli articoli 2043 e 2059 c.c. (secondo cui non sono risarcibili iure hereditatis i danni derivanti dalla violazione del diritto alla vita, potendo giustificarsi, sulla base del sistema della responsabilità civile, solo le perdite derivanti dalla violazione del diritto alla salute che si verificano a causa delle lesioni, nel periodo intercorrente tra le stesse e la morte) ed ha preso in considerazione, confutandoli, gli argomenti che sostengono la configurabilità del danno da perdita della vita trasmissibile agli eredi in ragione, essenzialmente, della ritenuta contrarietà dell’esclusione di tale configurabilità rispetto alla “coscienza sociale” (“La negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, seguita immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, è stata ritenuta contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita fosse priva di conseguenze sul piano civilistico (cass. n. 1361 del 2014), anche perché, secondo un’autorevole dottrina, se la vita è oggetto di un diritto che appartiene al suo titolare, nel momento in cui viene distrutta, viene in considerazione solo come bene meritevole di tutela nell’interesse dell’intera collettività. Ora, in disparte che la corrispondenza a un’indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l’attività dell’interprete del diritto positivo, deve rilevarsi che, secondo l’orientamento che queste sezioni unite intendono confermare, la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo Stato)”).

Ha, quindi, ribadito che “poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come ritenuto da Cass. n. 6938 del 1998, poiché, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996, ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (cass. n. 4991 del 1996)”, concludendo per la impossibilità di configurare la voce di danno in esame.

La assenza di prova circa la sussistenza di un “danno terminale” patito dal lavoratore, e quindi trasmesso in eredità agli odierni ricorrenti, e la impossibilità di configurare l’esistenza stessa di un “danno da perdita di vita”, anch’esso trasmesso in eredità agli odierni ricorrenti, comporta il rigetto del ricorso senza necessità di esaminare la sussistenza dei presupposti della domanda, ossia del rapporto di causalità tra decesso ed ambiente lavorativo e della violazione dell’art. 2087 c.c., o di altre norme cautelari specifiche, da parte del datore di lavoro.

Quanto alle domande che i ricorrenti hanno proposto jure proprio, esse si fondano sulla responsabilità extraxcontrattuale del datore di lavoro del proprio congiunto ed esulano dalla competenza del giudice del lavoro (“Esula dalla competenza per materia del giudice del lavoro e resta devoluta alla cognizione del giudice competente secondo il generale criterio del valore la domanda di risarcimento dei danni proposta dai congiunti del lavoratore deceduto non “jure hereditario”, per far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro dei confronti del loro dante causa, bensì “jure proprio”, quali soggetti che dalla morte del loro congiunto hanno subito danno e, quindi, quali portatori di un autonomo diritto al risarcimento che ha la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 cod. civ.” Cass. 20355/2005)

Con riferimento a tali domande deve, quindi, disporsi la trasmissione degli atti al Presidente per la assegnazione al giudice civile tabellarmente competente.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE DI TREVISO

SEZIONE LAVORO

I Giudice del Lavoro del Tribunale di Treviso dott.ssa R. Poirè ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa iscritta al n. 1319/2015 R.G. tra

(…), (…), (…), quali eredi di (…), rappresentati e difesi dall’avvocato Fu.Ca. come da mandato in atti

Ricorrente

CONTRO

(…) spa, rappresentata e difesa dagli avvocati Fr.Co., Vi.Mo. e Ma.Sb. come da procura in atti

Resistente

E

(…) spa

e

(…) spa

Resistenti contumaci

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 Le ricorrenti agiscono quali stretti congiunti (moglie e figlie) nonché eredi di (…), già dipendente di (…) spa e, poi, di (…) spa come operaio addetto alla manutenzione delle vie elettriche e deceduto il 10 giugno 2007 per infarto occorso durante l’espletamento di lavori di giardinaggio.

Hanno esposto che il lavoro cui (…) era stato addetto dal 1989 comprendeva anche la manutenzione dei tralicci in quota e che tale attività si svolgeva ad altezze considerevoli (anche 60 metri) ed a mezzo di sistemi di accesso , posizionamento ed assicurazione che richiedevano l’uso di imbragature totali, funi, carrucole, scale appese.

Si trattava di attività intuitivamente faticosa (dovendosi lavorare a braccia alzate in sospensione nel vuoto) e pericolosa e che, per richiedere anche puntuale coordinamento e comunicazione con i colleghi, comportava impegno non solo fisico ma anche intellettuale.

(…) non aveva mai sofferto di patologie cardiovascolari e conduceva un tipo di vita sano, sicché l’infarto era, con ampia verosimiglianza, da addebitarsi allo stress lavorativo, considerate le numerose ore di straordinario che erano state richieste al lavoratore e considerato, altresì, che il datore di lavoro non aveva sottoposto il lavoratore alle visite periodiche né aveva redatto il documento di valutazione dei rischi.

Sussistente la responsabilità del datore di lavoro, le ricorrenti ne hanno chiesto la condanna al risarcimento del danno subito sia jure hereditatis (consistente nel danno terminale e nel danno da perdita di vita) che jure proprio, consistente nel danno, non patrimoniale, della perdita del rapporto parentale e nel danno da incapacità lavorativa specifica o, in subordine, da procurata incapacità al lavoro straordinario, alla minore capacità produttiva o alle minori opportunità professionali o di carriera, oltre alla ripetizione delle spese funerarie quantificate in Euro9000,00..

Si è costituita (…) spa deducendo che l’attività cui era addetto (…) prevedeva l’espletamento di lavori di manutenzione in quota ma a rotazione rispetto a lavori a terra (ad esempio, tra il 21 maggio ed il 10 giugno 2007 il lavoro in quota era stato svolto solo nei giorni 21, 23 maggio e 10 giugno e che i giorni 26 – 28 maggio, 3,5 e 9 giugno il lavoratore aveva riposato) e che, anche nei giorni in cui si lavorava in altezza, tali attività non si protraevano per più di tre ore.

Ha rilevato che le ore di straordinario erano sempre state inferiori al massimo consentito e che, ad esempio, tra gennaio e giugno 2007 il lavoratore aveva effettuato in media 9 ore di straordinario mensili mentre nell’anno precedente il picco massimo si era avuto a luglio, con 14,51 ore.

Ha argomentato in ordine alla predisposizione ed aggiornamento del (prodotto) DVR anche il relazione alle mansioni specifiche del ricorrente, in ordine alle visite mediche cui il ricorrente era stato sottoposto (l’ultima delle quali a maggio 2007) conclusesi con la valutazione di piena idoneità alle mansioni e senza evidenziazione di alcun problema di salute (tantomeno cardiaco), in ordine ai corsi di formazione cui il lavoratore aveva partecipato dal 1999 al 2007, in ordine a tutti i presidi antinfortunistici forniti.

Ha, quindi, contestato la sussistenza di nesso causale tra decesso e condizioni lavorative, non riscontrandosi nelle stesse alcun carattere di nocività rispetto all’evento occorso ed evidenziandosi come dalla stessa perizia prodotta dai ricorrenti risultassero fattori di rischio estranei all’ambiente lavorativo quali il colesterolo alto ed il sovrappeso.

Ha evidenziato come la disciplina sulla valutazione del rischio da stress lavoro correlato non fosse invocabile (in quanto introdotta con il D.Lgs. n. 81 del 2008 – e, pertanto, successivamente al sinistro di causa -) e come, in ogni caso, le valutazioni in merito effettuate negli anni successivi avessero sempre evidenziato un rischio basso, mentre le restanti, ed esigibili, regole per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro erano sempre state osservate.

Ha, infine, rilevato come la morte di (…) fosse stata immediata, così da non essere ravvisabile il danno terminale; mentre il danno “da perdita di vita” era una voce neanche astrattamente ammissibile.

Ha contestato anche le voci di danno esposte quali danno subito “jure proprio”, rilevando la genericità delle allegazioni e richieste attoree sul punto ed esponendo che (…) aveva, al momento del decesso, già maturato i requisiti pensionistici e che non erano stati neanche dedotti fatti su cui fondare una concreta prognosi di crescita professionale, oltre a contestare l’insussistenza di qualunque documentazione circa gli esborsi sostenuti per spese funerarie.

  1. Dall’esposizione attorea (non vi è documentazione medica agli atti in relazione al decesso, in quanto la documentazione prodotta attiene ad un intervento cui (…) era stato sottoposto nel febbraio 2007 per questioni del tutto estranee a problematiche cardiache) non risulta che tra l’infarto ed il decesso fosse trascorso un lasso di tempo in qualche modo apprezzabile.

Sul punto i ricorrenti si sono limitati a dedurre che “il de cuius è deceduto di infarto in data 10.06.2007, di domenica, subito dopo essere rientrato da un turno di lavoro per (…) (effettuato dalle ore 5.00 alle ore 15.00) mentre era intento a tosare l’erba del proprio giardino (verso le ore 16.00)”e nessuna ulteriore precisazione circa il tempo – in ipotesi – intercorso tra la manifestazione dell’infarto ed il decesso è neanche contenuta nella perizia di parte prodotta.

Posto, quindi, che un periodo, anche minimo, di sopravvivenza dopo il manifestarsi dell’infarto non è stato in alcun modo allegato (così da doversi ritenere che, con ogni verosimiglianza, il decesso sia stato istantaneo), non sussiste prova che (…) abbia maturato, nel proprio patrimonio, il danno di cui gli odierni ricorrenti chiedono oggi il ristoro in qualità di eredi.

Il diritto al risarcimento del cd. danno terminale, tanto nella sua componente di danno biologico quanto in quella di danno morale (detto anche danno catastrofico), “è configurabile, e conseguentemente trasmissibile “iure hereditatis”, ove intercorra un apprezzabile lasso di tempo (nella specie, dieci giorni) tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse” (tra le altre, Cass. 21060/2016),così che, mancando la prova (ed anche l’allegazione) di una siffatta permanenza in vita per qualche tempo (irrilevante essendo ai fini del danno biologico terminale se in istato di coscienza oppure no) la voce di danno in esame non è nel caso di specie configurabile.

Quanto, invece, al c.d. “danno da perdita da vita” esso è stato ritenuto sussistente in capo al danneggiato defunto, e quindi risarcibile jure hereditatis a favore degli eredi, dalla sentenza della Corte di Cassazione 1362/2014.

Tale pronuncia ha, tuttavia, rappresentato la manifestazione di un orientamento senz’altro minoritario, e, in argomento si sono espresse in senso contrario una pluralità di sentenze, tanto precedenti che successive, tra le quali la sentenza resa a Sezioni Unite 15350 del 2015. Tale sentenza ha richiamato l’orientamento più risalente della Corte di Cassazione, espresso con la pronuncia anch’essa a Sezioni Unite 3475 del 1925 che ha escluso la configurabilità del danno da propria morte in quanto l’evento in ipotesi determinante il danno si verifica, per necessità, quando il soggetto, che si pretende essere lesionato, non è più, esprimendo tale concetto con le seguenti parole: “se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l’esistenza di un subbietto di diritto”.

Ha argomentato circa la conformità di tale orientamento rispetto alla giurisprudenza costituzionale di cui alla sentenza 372/1994 con la quale la Corte Costituzionale ha escluso la contrarietà a Costituzione dell’interpretazione degli articoli 2043 e 2059 c.c. (secondo cui non sono risarcibili iure hereditatis i danni derivanti dalla violazione del diritto alla vita, potendo giustificarsi, sulla base del sistema della responsabilità civile, solo le perdite derivanti dalla violazione del diritto alla salute che si verificano a causa delle lesioni, nel periodo intercorrente tra le stesse e la morte) ed ha preso in considerazione, confutandoli, gli argomenti che sostengono la configurabilità del danno da perdita della vita trasmissibile agli eredi in ragione, essenzialmente, della ritenuta contrarietà dell’esclusione di tale configurabilità rispetto alla “coscienza sociale” (“La negazione di un credito risarcitorio della vittima, trasmissibile agli eredi, per la perdita della vita, seguita immediatamente o a brevissima distanza di tempo dalle lesioni subite, è stata ritenuta contrastante con la coscienza sociale alla quale rimorderebbe che la lesione del diritto primario alla vita fosse priva di conseguenze sul piano civilistico (cass. n. 1361 del 2014), anche perché, secondo un’autorevole dottrina, se la vita è oggetto di un diritto che appartiene al suo titolare, nel momento in cui viene distrutta, viene in considerazione solo come bene meritevole di tutela nell’interesse dell’intera collettività. Ora, in disparte che la corrispondenza a un’indistinta e difficilmente individuabile coscienza sociale, se può avere rilievo sul piano assiologico e delle modifiche normative, più o meno auspicabili, secondo le diverse opzioni culturali, non è criterio che possa legittimamente guidare l’attività dell’interprete del diritto positivo, deve rilevarsi che, secondo l’orientamento che queste sezioni unite intendono confermare, la morte provoca una perdita, di natura patrimoniale e non patrimoniale, ai congiunti che di tal perdita sono risarciti, mentre non si comprende la ragione per la quale la coscienza sociale sarebbe soddisfatta solo se tale risarcimento, oltre che ai congiunti (per tali intendendo tutti i soggetti che, secondo gli orientamenti giurisprudenziali attuali, abbiano relazioni di tipo familiare giuridicamente rilevanti, con la vittima) per le perdite proprie, fosse corrisposto anche agli eredi (e in ultima analisi allo Stato)”).

Ha, quindi, ribadito che “poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l’irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come ritenuto da Cass. n. 6938 del 1998, poiché, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996, ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (cass. n. 4991 del 1996)”, concludendo per la impossibilità di configurare la voce di danno in esame.

La assenza di prova circa la sussistenza di un “danno terminale” patito dal lavoratore, e quindi trasmesso in eredità agli odierni ricorrenti, e la impossibilità di configurare l’esistenza stessa di un “danno da perdita di vita”, anch’esso trasmesso in eredità agli odierni ricorrenti, comporta il rigetto del ricorso senza necessità di esaminare la sussistenza dei presupposti della domanda, ossia del rapporto di causalità tra decesso ed ambiente lavorativo e della violazione dell’art. 2087 c.c., o di altre norme cautelari specifiche, da parte del datore di lavoro.

Quanto alle domande che i ricorrenti hanno proposto jure proprio, esse si fondano sulla responsabilità extraxcontrattuale del datore di lavoro del proprio congiunto ed esulano dalla competenza del giudice del lavoro (“Esula dalla competenza per materia del giudice del lavoro e resta devoluta alla cognizione del giudice competente secondo il generale criterio del valore la domanda di risarcimento dei danni proposta dai congiunti del lavoratore deceduto non “jure hereditario”, per far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro dei confronti del loro dante causa, bensì “jure proprio”, quali soggetti che dalla morte del loro congiunto hanno subito danno e, quindi, quali portatori di un autonomo diritto al risarcimento che ha la sua fonte nella responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 cod. civ.” Cass. 20355/2005)

Con riferimento a tali domande deve, quindi, disporsi la trasmissione degli atti al Presidente per la assegnazione al giudice civile tabellarmente competente.

Le spese si compensano per la metà tenuto conto che sulla questione del danno da perdita della vita vi è stato un contrasto giurisprudenziale che ha richiesto l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pronunciatesi in senso sfavorevole ai ricorrenti il giorno precedente al deposito del presente ricorso; per la restante parte seguono la soccombenza.

P.Q.M.

– Rigetta il ricorso con riferimento alle domande risarcitorie proposte jure hereditatis;

– Dispone la trasmissione degli atti al Presidente del Tribunale per l’assegnazione di competenza in ordine alle domande proposte dai ricorrenti jure proprio;

– Compensa le spese per la metà e condanna i ricorrenti al pagamento della restante parte delle spese di parte resistente costituita che, per la frazione, liquida in Euro3000,00 oltre oneri di legge.

Così deciso in Treviso il 22 febbraio 2018.

Depositata in Cancelleria il 22 febbraio 2018.

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