ipossia cerebrale intra partum

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Ottenere  il risarcimento danni per il fatto di colpa medico forse peggiore che possa capitare

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Cos’è la Paralisi Cerebrale Infantile e come si presenta

La Paralisi Cerebrale Infantile, che colpisce, con vari livelli di gravità e varie problematiche, approssimativamente 1 bambino su 500, è un gruppo di disordini permanenti del movimento e della postura che causa una limitazione della funzionalità motoria, attribuiti ad un danno cerebrale non progressivo (cervello, cervelletto e tronco encefalico) incorso durante la vita fetale o neonatale. Il disordine motorio è a volte accompagnato da altri disturbi, come disturbi della sensibilità, disturbi cognitivi e della comunicazione, epilessia e problemi muscolo-scheletrici secondari.

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In materia di risarcimento danni i casi piu’ frequenti sono :

quelli di Paralisi Cerebrale Infantile conseguenti ad encefalopatia dovuta ad asfissia durante il travaglio di parto.

l’American College of Obstetrics and Gynecology & American Academy of Pediatrics (ACOG) nel 2003, aggiornando il lavoro dell’International Cerebral Task Force del 1999, in ordine ai criteri cui occorre rifarsi al fine di verificare la sussistenza del nesso causale tra encefalopatia neonatale ed ipossia durante il parto.

Devono essere soddisfatti necessariamente 4 criteri in via cumulativa:

  1. presenza di acidosi metabolica;

  2. insorgenza precoce di segni e sintomi di encefalopatia neonatale grave o media (in neonati di età gestazionale superiore alle 34 settimane);

  3. paralisi cerebrale di tipo quadriplegico, spastico e discinetica (la quadriplegia spastica e la paralisi cerebrale discinetica sono segni neurologici certi associati ad un eventi ipossico acuto intra partum);

  4. esclusione di altre cause identificabili come trauma, disordini coagulativi, infezioni, malattie genetiche

L’INDENNITÀ DI ACCOMPAGNAMENTO NON VA CUMULATA CON IL RISARCIMENTO PER RESPONSABILITÀ MEDICA

Viene rimessa alle Sezioni Unite la risoluzione del contrasto sorto nella giurisprudenza di legittimità e relativo alla applicabilità del principio della compensatio lucri cum damno nell’ambito del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica.

 

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Un neonato aveva patito grave ipossia cerebrale a causa della ritardata esecuzione del parto cesareo, ascrivibile a colpa del medico di turno e del primario del reparto.

 

 

 L’ipossia intra partum nel neonato purtroppo  aveva lasciato dei postumi assai invalidanti tanto che era stato richiesto l’assegno di accompagnamento

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, consistiti in una tetraparesi, patologia questa che necessita di un’assistenza personale fissa per la conduzione di un’esistenza dignitosa dell’invalido.

 

ome correttamente rileva l’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione, la soluzione della specifica questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite coinvolge un tema di carattere più generale, che attiene alla individuazione della attuale portata del principio della compensatio lucri cum damno e sollecita una risposta all’interrogativo se e a quali condizioni, nella determinazione del risarcimento del danno da fatto illecito, accanto alla poste negative si debbano considerare, operando una somma algebrica, le poste positive che, successivamente al fatto illecito, si presentano nel patrimonio del danneggiato.

L’ordinanza di rimessione pone questo tema a oggetto di un quesito di portata più ampia di quello riguardante la detraibilità o meno dell’importo del vantaggio economico collegato all’erogazione dell’indennità di accompagnamento: se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice debba limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla compensatio; e se, di conseguenza, quando l’evento causato dall’illecito costituisce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, di questi il giudice debba tener conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo.

Tale interrogativo, al quale è sottesa una richiesta indistinta e omologante di tutte le possibili evenienze legate al sopravvenire, al fatto illecito produttivo di conseguenze dannose, di benefici collaterali al danneggiato, viene esaminato dalle Sezioni Unite nei limiti della sua rilevanza: fino al punto, cioè, in cui esso rappresenta un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l’enunciazione, a risoluzione del contrasto di giurisprudenza, di un principio di diritto legato all’orizzonte di attesa della fattispecie concreta.

Questa delimitazione di ambito e di prospettiva non è frutto di una scelta discrezionale del Collegio decidente, ma conseguenza che si ricollega alle funzioni ordinamentali e alle attribuzioni processuali delle Sezioni Unite, alle quali è affidata, non l’enunciazione di principi generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto, ma la soluzione di questioni di principio di valenza nomofilattica pur sempre riferibili alle specificità del singolo caso della vita. Se ne ha una conferma nella stessa previsione dell’art. 363 cod. proc. civ., perchè anche là dove la Corte di cassazione è chiamata ad enunciare un principio di diritto nell’interesse della legge, si tratta tuttavia del principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi nella risoluzione della specifica controversia.

5.1. – L’esistenza dell’istituto della compensatio, inteso come regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno, non è controversa nella giurisprudenza di questa Corte, trovando il proprio fondamento nella idea del danno risarcibile quale risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall’atto dannoso.

Se l’atto dannoso porta, accanto al danno, un vantaggio, quest’ultimo deve essere calcolato in diminuzione dell’entità del risarcimento: infatti, il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell’interesse leso o condurre a sua volta ad un arricchimento ingiustificato del danneggiato. Questo principio è desumibile dall’art. 1223 cod. civ., il quale stabilisce che il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita dal danneggiato come il mancato guadagno, in quanto siano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito. Tale norma implica, in linea logica, che l’accertamento conclusivo degli effetti pregiudizievoli tenga anche conto degli eventuali vantaggi collegati all’illecito in applicazione della regola della causalità giuridica. Se così non fosse – se, cioè, nella fase di valutazione delle conseguenze economiche negative, dirette ed immediate, dell’illecito non si considerassero anche le poste positive derivate dal fatto dannoso – il danneggiato ne trarrebbe un ingiusto profitto, oltre i limiti del risarcimento riconosciuto dall’ordinamento giuridico (Cass., Sez. 3, 11 luglio 1978, n. 3507).

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In altri termini, il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito: come l’ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così occorre tener conto degli eventuali effetti vantaggiosi che il fatto dannoso ha provocato a favore del danneggiato, calcolando le poste positive in diminuzione del risarcimento.

5.2. – Controversi sono piuttosto la portata e l’ambito di operatività della figura, ossia i limiti entro i quali la compensatio può trovare applicazione, soprattutto là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati, appunto sulla base di fonti differenti.

E’ la situazione che si verifica quando, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell’evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato ed un soggetto diverso, a sua volta obbligato, per legge o per contratto, ad erogare al primo un beneficio collaterale: si pensi all’assicurazione privata contro i danni, nella quale l’assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro; si considerino i benefici della sicurezza e dell’assistenza sociale, da quelli legati al rapporto di lavoro (e scaturenti dalla tutela contro gli infortuni e le malattie professionali) a quelli rivolti ad assicurare ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere una tutela assistenziale; si pensi, ancora, alle numerose previsioni di legge che contemplano indennizzi o speciali elargizioni che lo Stato corrisponde, per ragioni di solidarietà, a coloro che subiscono un danno in occasione di disastri o tragedie e alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata.

La vicenda concreta all’esame delle Sezioni Unite si colloca in quest’ambito. In essa il duplice rapporto bilaterale è rappresentato, da un lato, dal titolo di responsabilità della struttura ospedaliera e del medico per la colpa di questo per negligenza al parto, da cui discende l’obbligo di risarcire il danno subito dal minore, consistente, per quanto qui rileva, nelle spese da sostenere per l’assistenza personale vita natural durante; dall’altro, dalla relazione discendente dalla legislazione statale di assistenza sociale, la quale, attraverso l’indennità di accompagnamento erogata dall’Inps, assicura a quel minore vittima di lesioni personali una forma di sostegno e di sussidio anche quando l’invalidità dipenda dalla responsabilità di terzi.

In questa ed in altre fattispecie similari si tratta di stabilire se l’incremento patrimoniale realizzatosi in connessione con l’evento dannoso per effetto del beneficio collaterale avente un proprio titolo e una relazione causale con un diverso soggetto tenuto per legge o per contratto ad erogare quella provvidenza, debba restare nel patrimonio del danneggiato cumulandosi con il risarcimento del danno o debba essere considerato ai fini della corrispondente diminuzione dell’ammontare del risarcimento.

5.3. – Restano fuori dal quesito rivolto alle Sezioni Unite le ipotesi in cui, pur in presenza di titoli differenti, vi sia unicità del soggetto responsabile del fatto illecito fonte di danni ed al contempo obbligato a corrispondere al danneggiato una provvidenza indennitaria.

In queste ipotesi vale la regola del diffalco, dall’ammontare del risarcimento del danno, della posta indennitaria avente una cospirante finalità compensativa.

La compensatio opera cioè in tutti i casi in cui sussiste una coincidenza tra il soggetto autore dell’illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l’effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni.

Questa Corte, anche a Sezioni Unite, ha infatti affermato che l’indennizzo corrisposto al danneggiato, ai sensi della L. 25 febbraio 1992, n. 210, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto deve essere integralmente scomputato dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della salute) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Cass., Sez. U., 11 gennaio 2008, n. 584; Cass., Sez. 3, 14 marzo 2013, n. 6573).

Ebbene, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi ad una ‘doppia conforme’ e cioè ad una doppia conforme decisione (di condanna), le sentenze di primo e secondo grado vanno apprezzate nel loro complesso, onde valutarne la conformità al diritto ed alla logica, sì da poterne considerare la tenuta in sede di legittimità.

 

In tema di responsabilità medica, la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dall’art. 3 del D.L. 13 settembre 2012, n. 158 (conv. in legge 8 novembre 2012, n. 189), opera soltanto per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia, ma non si estende agli errori diagnostici connotati da negligenza o imperizia. (Fattispecie nella quale, in relazione al decesso del feto provocato dal ginecologo per la mancata esecuzione di un intervento di parto cesareo, la S.C. ha ritenuto irrilevanti le linee guida amministrative contenenti i criteri di scelta tra parto naturale e taglio cesareo ma riguardanti il solo profilo della perizia). [tabs slidertype=”top tabs”] [tabcontainer] [tabtext][/tabtext] [/tabcontainer] [tabcontent] [tab]ipossia post partum[/tab] [/tabcontent] [/tabs] Ulteriore elemento di contraddittorietà della motivazione viene rinvenuto con riferimento alla patologia causa della morte. La Corte di merito, aderendo alla ricostruzione del primo giudice, aveva apoditticamente concluso che la morte della neonata si era verificata a causa di un’asfissia post partum produttiva di una tetra paresi spastica individuando quali indicatori della asfissia elementi asseritamente equivoci.

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Tra questi la triplice somministrazione di bicarbonato era privo di pregio in quanto rientrante nelle ordinarie pratiche di rianimazione che la neonata aveva dovuto subire. Inoltre i giudici di appello, aderendo alla impostazione del primo giudice, non avevano preso posizione sulla questione controversa tra i periti afferente l’apprezzamento della esistenza di un’acidosi metabolica.

Si sostiene inoltre che la Corte di merito non aveva fornito risposta al rilievo che aveva evidenziato come dall’esame anatomo-patologico del cervello era risultato un danno ipossico a carico di strutture profonde, incompatibile con un’asfissia in fase di travaglio. Sotto altro profilo si deduce che la valutazione operata dai giudici di merito non aveva tenuto conto dei rischi connessi all’effettuazione del taglio cesareo evidenziati da uno dei consulenti dell’imputato.

Tale ultimo profilo viene trattato anche con il secondo motivo con il quale si deduce la violazione di legge con riferimento agli artt. 40 e 43 c.p., giacchè la Corte di appello avrebbe fondato la responsabilità penale del sanitario esclusivamente sulla posizione di garanzia rivestita dal medesimo senza tenere conto dei rilievi formulati nei motivi di appello sulla impraticabilità del parto cesareo nel caso di specie, omettendo ogni valutazione sulla possibilità da parte del medico di tenere la condotta doverosa omessa e mancando di procedere ad un giudizio contro fattuale.

Con il terzo motivo, richiamando una nota opinione della dottrina sulla natura normativa della colpa generica, si lamenta che i giudici di merito, nel valutare la presenza di un errore diagnostico, non avevano tenuto conto delle linee guida afferenti i criteri di scelta tra il parto naturale ed il taglio cesareo, dettate con la deliberazione della Regione Campania n. 118 del 2 febbraio 2005, in Bollettino Ufficiale n. 20 dell’11 aprile 2005, dimostrative del fatto che l’imputato non solo non fosse incorso in alcuna violazione del dovere di diligenza ma che il suo comportamento fosse assolutamente conforme a quelle direttive.

CONSIDERATO IN DIRITTO

In via preliminare va disattesa l’eccezione di prescrizione sollevata dal difensore nell’odierna udienza.

Invero va precisato che la morte della bambina, quale conseguenza del parto, si è verificata il (OMISSIS), per cui l’inizio del decorso della prescrizione è da identificare in quella data, pur essendo stata la condotta posta in essere in data (OMISSIS).

Poichè sono state concesse le attenuanti generiche, il termine massimo di prescrizione, pari a sette anni e mezzo (v. art. 157 c.p., comma 1, e art. 161 c.p., comma 2), sarebbe in astratto decorso il 6 luglio 2011. Bisogna però tener conto, al riguardo, dei periodi di sospensione della prescrizione.

Nel corso del giudizio di primo grado, nel caso in esame, vi è stato il rinvio dal 5 luglio 2007 al 10 dicembre 2007 per sciopero avvocati (5 mesi e 5 giorni); nel corso del giudizio di secondo grado all’udienza del 18 gennaio 2011 è stata formulata dal difensore dell’imputato istanza di rinvio per motivi personali e l’udienza è stata rinviata al 18 marzo 2011 (2 mesi); vi è stato poi il rinvio dal 18 marzo 2011 al 25 ottobre 2011 per sciopero avvocati (per complessivi 7 mesi e 7 giorni) ed infine all’udienza del 25 ottobre 201 le stata formulata nuova istanza di rinvio da parte del difensore, così che l’udienza è stata rinviata alla data del 2 dicembre 2011 (1 mese e 7 giorni). Ne consegue che alla data della pronuncia di questa sentenza la prescrizione non si era ancora maturata, in quanto il periodi di sospensione della prescrizione (complessivamente 1 anno, 3 mesi e 19 giorni), va sommato al termine di legge (7 anni e mezzo), così la data di prescrizione è stata correttamente calcolata al 25 ottobre 2012, data in cui era intervenuta una ulteriore causa di sospensione della prescrizione giacchè all’udienza del 23 ottobre, alla quale era stata inizialmente fissata l’udienza dinanzi a questa Corte, il difensore dell’imputato ha fatto pervenire istanza di adesione allo sciopero degli avvocati, con il conseguente rinvio alla data odierna, in assenza di opposizione delle altre parti.

Ciò premesso, il ricorso, comune ad entrambe le parti, è infondato e va rigettato.

A tal riguardo, giova premettere i limiti del controllo di legittimità quando ci si trova di fronte a una doppia sentenza di condanna e quando la doglianza (travisamento della prova, carenza di motivazione) è caratterizzato dalla diversa lettura delle relazioni peritali in atti.

Ebbene, in tema di ricorso per cassazione, quando ci si trova dinanzi ad una ‘doppia conforme’ e cioè ad una doppia conforme decisione (di condanna), le sentenze di primo e secondo grado vanno apprezzate nel loro complesso, onde valutarne la conformità al diritto ed alla logica, sì da poterne considerare la tenuta in sede di legittimità.

Parimenti, va ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, alla luce della rinnovata formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, è ora sindacabile il vizio di ‘travisamento della prova’, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un dato di conoscenza considerato determinante, ma non desumibile dagli atti del processo, o quando si omette la valutazione di un elemento di prova decisivo sullo specifico tema o punto in trattazione. Tale vizio può essere fatto valere, però, solo nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, ma non nel caso in cui la sentenza di appello abbia confermato l’anteriore decisione (cosiddetta ‘doppia conforme’), posto in questo caso il limite posto dal principio devolutivo, che non può essere valicato, con coeva intangibilità della valutazione di merito del risultato probatorio, se non nell’ipotesi in cui il giudice di appello abbia individuato – per superare le censure mosse al provvedimento di primo grado – atti o fonti conoscitive mai prima presi in esame, ossia non esaminati dal primo giudice (Sezione 6, 10 maggio 2007, Contrada).

E’ quindi tenendo conto di queste premesse che vanno esaminati i motivi di ricorso, specie allorquando siano sviluppati sulla logicità degli argomenti spesi in motivazione a supporto della con divisibilità o no dei diversi apporti scienti scientifici di rilievo ai fini della ricostruzione del fatto e delle possibili responsabilità.

A tal riguardo, è indiscutibile che, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove, il giudice ha la possibilità di scegliere, fra le varie tesi prospettate da differenti periti di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purchè dia conto, con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermato sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicchè, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poichè si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Sezione 4, 20 aprile 2010, Bonsignore).

E in questa prospettiva è altrettanto indiscutibile che non possa essere questa Corte ad interloquire sulla maggiore o minore attendibilità scientifica degli apporti scientifici esaminati dal giudice.

la Corte di cassazione non è giudice del sapere scientifico, giacchè non detiene proprie conoscenze privilegiate: essa, in vero, è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine alla affidabilità delle informazioni che vengono utilizzate ai fini della spiegazione del fatto.

Ed allora, come anticipato, il giudice di legittimità è e rimane pur sempre giudice della correttezza della motivazione e, quindi, (solo) del modo con cui una determinata affermazione scientifica è veicolata a supporto della decisione.

Non spetta alla Corte esprimersi a favore dell’una o dell’altra tesi (la Corte, infatti, non ha la competenza o la qualificazione per stabilire se la legge scientifica utilizzata sia affidabile o no, mentre può e deve limitare il proprio vaglio alla spiegazione razionale fornita in proposito dal giudice: in termini, Sezione 4, 30 settembre 2008, parte civile Rizza ed altri in proc. Codega ed altri;

Sezione 4, 17 settembre 2010, Cozzini ed altri). Ma spetta al giudice di merito fornire una spiegazione convincente che sia in grado di reggere – qui nell’ottica dell’al di là di ogni ragionevole dubbio ai fini della condanna – il vaglio della logicità e della persuasività. Vaglio che si risolve, per quanto evidenziato, in termini negativi.

E proprio facendo applicazione di questi principi che è immediatamente apprezzabile la non manifesta illogicità della sentenza, che ha proceduto ad un’attenta disamina comparativa tra i diversi apporti medico-legali (di cui non può qui esprimersi la condivisibilità o no: ovvero la preferenza dell’uno rispetto agli altri),aderendo ad una delle tesi scientifiche (qui, principalmente a quella prospettata dai consulenti della parte civile), senza eludere le tematiche specifiche che le altre tesi pur ponevano non arbitrariamente: in particolare, la questione della rilevanza fenomenica dei diversi tracciati tocografici e della rilevanza di questi e di ciascuna di essi ai fini e per gli effetti dell’indicazione di una sofferenza del feto e, quindi, della scelta inderogabile ed indilazionabile di eseguire il parto cesareo nonchè la questione della sussistenza di un’acidosi metabolica, rilevante, in ipotesi, per sostenere la tesi dell’asfissia intra partum.

Rispetto a queste decisive questioni, i giudici hanno saputo fornire una congrua e motivata ragione della scelta ed hanno dimostrato di essersi soffermato sulla tesi che hanno creduto di non dover seguire.

Basta rilevare, con riferimento alla questione del mancato monitoraggio tocografico e della rilevanza degli esiti dei tracciati ai fini della prova della condizione di sofferenza del feto, che il giudice di appello ha approfondito i profili di colpa addebitabili al sanitario, evidenziando non soltanto le conclusioni dal consulente del pubblico ministero e di quelli della parte civile, che hanno definito patologico il tracciato delle ore 7 – essendo state rilevate decelerazioni anomale del battito fetale – ma anche quelle dei periti di ufficio e degli stessi consulenti dell’imputato, i quali hanno definito, per gli stessi motivi, tale tracciato non rassicurante.

Non è, pertanto, manifestamente illogica la motivazione laddove i giudici di merito affermano che la condizione della paziente, già trentottenne alla prima gravidanza e con indotta stimolazione farmacologica del travaglio, avrebbe dovuto indurre il sanitario ad un monitoraggio continuo delle condizioni del feto onde valutare l’opportunità di un taglio cesareo, ancora possibile in quanto la donna presentava una dilatazione del collo uterino di appena cinque centimetri, così evitando al feto l’ulteriore stress correlato al parto naturale, avvenuto circa un’ora dopo.

Basta rilevare, ancora, con riferimento alla questione della sussistenza dell’acidosi metabolica, rilevante per sostenere la tesi dell’asfissia intrapartum, che i giudici di merito non hanno eluso una propria pertinente motivazione per disattendere la tesi fatta propria non solo dal consulente della difesa ma anche dai periti di ufficio, i quali avevano espresso il convincimento che fosse dubbia la presenza dell’acidosi metabolica e ciò avevano prospettato evidenziando la circostanza temporale che l’emogasanalisi era stata effettuata in tempi successivi.

Il giudice di appello ha recepito la tesi opposta ed richiamato anche la sentenza di primo grado, laddove il giudicante aveva evidenziato che, anche se non confermata dalle analisi, in quanto non eseguite nella prima ora di vita della neonata, detta acidosi metabolica era sicuramente deducibile dalla circostanza che alla bambina erano state somministrate tre dosi di bicarbonato di calcio, terapia utilizzata proprio in quei casi in cui il neonato presenti tale complicanza, certamente ricollegabile ad una ipossia da travaglio. In tal senso deponevano, del resto, come evidenziato nella sentenza, gli altri sintomi presenti nella bambina al momento della nascita: un indice di Apgar pari a 2, bradicardia, assenza di respiro spontaneo, ipotonia generalizzata, tutti elementi ulteriormente significativi della asfissia verificatasi al momento della nascita. Ed è anche di rilievo la considerazione svolta da entrambi i giudici di merito secondo la quale alcuna indagine strumentale eseguita nell’arco dei nove mesi aveva rivelato la presenza di malattie genetiche.

Alla luce di tali considerazioni non è, pertanto, elusivo il richiamo alla ‘posizione di garanzia’ della vita della madre e della bambina rivestita dal sanitario- che aveva seguito la R. per tutta la gravidanza e si era impegnato con lei a seguirne il parto -, collegata dai giudici di merito alla positiva dimostrazione della colpa in cui lo stesso era incorso, omettendo di sottoporre la paziente ad un costante monitoraggio e di predisporre ed eseguire l’intervento di parto cesareo che, se eseguito, con elevato grado di credibilità razionale avrebbe evitato l’asfissia ed il conseguente decesso della bambina.

Anche l’ultimo motivo, con il quale si lamenta che i giudici di merito, nel valutare la presenza di un errore diagnostico, non avevano tenuto conto delle linee guida afferenti i criteri di scelta tra il parto naturale ed il taglio cesareo, dettate con la deliberazione della Regione Campania n. 118 del 2 febbraio 2005, è infondato.

Sul punto va, in via preliminare, osservato che, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, nel caso in esame il profilo di colpa accertato a carico del sanitario non è fondato su di un errore colpevole nella formulazione della diagnosi nè sulla imperizia dimostrata dallo stesso. Come sopra evidenziato, la responsabilità dell’imputato è stata, invece, individuata nella violazione del dovere di diligenza che gli imponeva di svolgere la sua attività secondo il suo modello di agente e nel rispetto delle regole di prudenza, la cui violazione ha determinato le premesse dell’evento letale. Non può, pertanto, essere utilmente evocata l’applicazione delle linee guida che riguardano e contengono solo regole di perizia e non afferiscono ai profili di negligenza e di imprudenza.

Nè, trattandosi di colpa per negligenza ed imprudenza, può trovare applicazione il novum normativo di cui alla L. n. 189 del 2012, art. 3, che limita la responsabilità in caso di colpa lieve.

La citata disposizione obbliga, infatti, a distinguere fra colpa lieve e colpa grave, solo limitatamente ai casi nei quali si faccia questione di essersi attenuti a linee guida e solo limitatamente a questi casi viene forzata la nota chiusura della giurisprudenza che non distingue fra colpa lieve e grave nell’accertamento della colpa penale.

Tale norma non può, invece, involgere ipotesi di colpa per negligenza o imprudenza, perchè, come sopra sottolineato, le linee guida contengono solo regole di perizia.

Va, comunque, precisato, in via generale, che le linee guida per avere rilevanza nell’accertamento della responsabilità del medico devono indicare standard diagnostico terapeutici conformi alla regole dettate dalla migliore scienza medica a garanzia della salute del paziente e (come detto) non devono essere ispirate ad esclusive logiche di economicità della gestione, sotto il profilo del contenimento delle spese, in contrasto con le esigenze di cura del paziente (va ovviamente precisato che anche le aziende sanitarie devono, a maggior ragione in un contesto di difficoltà economica, ispirare il proprio agire anche al contenimento dei costi ed al miglioramento dei conti, ma tali scelte non possono in alcun modo interferire con la cura del paziente: l’efficienza di bilancio può e deve essere perseguita sempre garantendo il miglior livello di cura, con la conseguenza del dovere del sanitario di disattendere indicazioni stringenti dal punto di vista economico che si risolvano in un pregiudizio per il paziente).

Solo nel caso di linee guida conformi alle regole della migliore scienza medica sarà poi possibile utilizzarle come parametro per l’accertamento dei profili di colpa ravvisabili nella condotta del medico ed attraverso le indicazioni dalle stesse fornite sarà possibile per il giudicante – anche, se necessario, attraverso l’ausilio di consulenze rivolte a verificare eventuali particolarità specifiche del caso concreto, che avrebbero potuto imporre o consigliare un percorso diagnostico-terapeutico alternativo- individuare eventuali condotte censurabili (v. sulla natura delle linee guida e sulla loro rilevanza nelle scelte terapeutiche del medico e nella valutazione del giudice, Sez. 4, 11 luglio 2012, n. 35922, Ingrassia).

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese di questo giudizio in favore delle costituite parti civili, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione in favore delle costituite parti civili delle spese di questo giudizio, che, unitariamente e complessivamente liquida in Euro 3.000,00, oltre I.V.A. e C.P.A. nelle misure di legge

 

 

Niente risarcimento ai fratelli postumi del disabile a causa di errore medico

I due fratelli del primogenito ricorrono in Cassazione ritenendo conforme a normalità che i fratelli di persona nata con gravi malformazioni soffrano per le condizioni del proprio familiare, e di conseguenza si sarebbe dovuta affermare, invece che negare, l’esistenza d’un valido nesso di causa tra l’errore dei sanitari e il danno non patrimoniale loro patito.

Fatto : Nel 1997 i coniugi Di.Pa.Ci. e D.S.G., sia in proprio che quali rappresentanti ex lege dei propri figli minori D.P.F., R. e C., convennero dinanzi al Tribunale di Napoli l’Università degli Studi di (OMISSIS) (d’ora innanzi, per brevità, “l’Università”), esponendo che:

(-) D.S.G. l'(OMISSIS) diede alla luce il proprio figlio primogenito F., nel reparto di ginecologia ed ostetricia del Policlinico Universitario, gestito dall’Università;

(-) il bimbo nacque con un grave ritardo neuromotorio dovuto ad ipossia cerebrale intra partum;

(-) il danno fu causato dalla colpevole condotta dei sanitari del Policlinico Universitario, i quali nonostante un evidente quadro sintomatico di sofferenza fetale, non eseguirono prontamente un parto cesareo, non sorvegliarono adeguatamente la gestante durante il travaglio, e comunque le somministrarono dosi eccessive di ossitocina, che si rivelarono controproducenti rispetto al felice esito del parto.

  1. L’Università si costituì, negando la propria responsabilità e contestando il quantum debeatur.

FATTI DI CAUSA

  1. Nel 1997 i coniugi Di.Pa.Ci. e D.S.G., sia in proprio che quali rappresentanti ex lege dei propri figli minori D.P.F., R. e C., convennero dinanzi al Tribunale di Napoli l’Università degli Studi di (OMISSIS) (d’ora innanzi, per brevità, “l’Università”), esponendo che:

(-) D.S.G. l'(OMISSIS) diede alla luce il proprio figlio primogenito F., nel reparto di ginecologia ed ostetricia del Policlinico Universitario, gestito dall’Università;

(-) il bimbo nacque con un grave ritardo neuromotorio dovuto ad ipossia cerebrale intra partum;

(-) il danno fu causato dalla colpevole condotta dei sanitari del Policlinico Universitario, i quali nonostante un evidente quadro sintomatico di sofferenza fetale, non eseguirono prontamente un parto cesareo, non sorvegliarono adeguatamente la gestante durante il travaglio, e comunque le somministrarono dosi eccessive di ossitocina, che si rivelarono controproducenti rispetto al felice esito del parto.

  1. L’Università si costituì, negando la propria responsabilità e contestando il quantum debeatur.

Con sentenza 12 marzo 2004 n. 3055 il Tribunale di Napoli accolse la domanda.

La sentenza venne appellata da tutte le parti.

  1. Con sentenza 30 dicembre 2013 n. 4514 la Corte d’appello di Napoli accolse parzialmente tanto l’appello principale proposto dall’Università, quanto l’appello incidentale proposto da Di.Pa.Ci. e D.S.G., sia in proprio che quali rappresentanti dei propri figli minori.

Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d’appello liquidò in misura più cospicua, rispetto a quanto ritenuto dal Tribunale, sia il danno (patrimoniale e non patrimoniale) patito da D.P.F., sia il danno patrimoniale patito dai suoi genitori.

La Corte d’appello ritenne invece, accogliendo sul punto il gravame dell’Università, che non spettasse alcun risarcimento ai minori D.P.R. e D.P.C., fratelli postumi di F., poichè, essendo nati dopo quest’ultimo, non poteva dirsi sussistente un valido nesso di causa fra l’errore dei sanitari e il danno da essi lamentato.

  1. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione:

(-) da D.P.R. e D.P.C., con ricorso fondato su due motivi;

(-) dall’Università degli Studi di (OMISSIS), con ricorso autonomo (ma da qualificare come incidentale, perchè proposto per secondo), fondato su due motivi.

Al ricorso dell’Università hanno resistito con due distinti controricorsi D.P.R. e D.P.C. da un lato, e gli altri intimati dall’altro.

I germani D.P.R. e C. hanno depositato due distinte memorie ex art. 378 c.p.c.: l’una per sostenere il ricorso da essi proposto, l’altra per contrastare quello proposto dall’Università.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

  1. Il primo motivo del ricorso principale.

1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti principali sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 1218,1223,1225,2043,2056,2059 e 2909 c.c.; artt. 324 e 346 c.p.c.; art. 185 c.p..

Il motivo sostiene una tesi giuridica così riassumibile:

(-) il giudice d’appello ha rigettato la domanda proposta dai fratelli della vittima primaria (ovvero il bimbo nato con handicap a causa dell’ipossia intra partum) sul presupposto che mancasse il nesso di “causalità giuridica”;

(-) parlando di “causalità giuridica”, la Corte d’appello ha implicitamente fatto riferimento alla previsione di cui all’articolo 1225 c.c.;

(-) il giudice di primo grado, tuttavia, aveva qualificato la domanda attorea proposta dai fratelli della vittima primaria come “azione contrattuale e cumulativa extracontrattuale”;

(-) tale qualificazione non era stata impugnata dall’Università, con la conseguenza che su essa si era formato il giudicato;

(-) ergo, il giudicato formatosi sulla qualificazione extracontrattuale della domanda impediva l’applicabilità dell’art. e 1225 c.c..

1.2. Il motivo è infondato.

I ricorrenti in sostanza lamentano la formazione del giudicato sulla qualificazione giuridica della loro domanda, per trarne la conseguenza che, definitivamente qualificata la loro azione come extracontrattuale, essi avevano diritto al risarcimento anche dei danni imprevedibili, dal momento che l’irrisarcibilità di questi ultimi è prevista dall’art. 1225 c.c. per le sole ipotesi di inadempimento contrattuale.

Ma a questa conclusione osta la circostanza che l’appello proposto dall’Università, col quale si contestava l’esistenza e la risarcibilità del danno patito da fratelli postumi della vittima primaria, ha impedito la formazione di qualsiasi giudicato tanto sull’esistenza del danno, quanto sulla sua derivazione causale dall’illecito, quanto, infine, sulla sua risarcibilità.

Infatti è certamente vero che il giudicato possa formarsi anche sulla qualificazione giuridica della domanda adottata dal primo giudice (così, tra le tante, Sez. 2, Sentenza n. 1152 del 10/05/1963; da ultimo, nello stesso senso, Sez. 2, Sentenza n. 18427 del 01/08/2013).

Questa regola ha tuttavia un limite: nessun giudicato può formarsi sulla qualificazione giuridica data dal primo giudice alla domanda, quando l’appellante, pur non contestando formalmente quella qualificazione, col suo gravame sottoponga comunque al giudice d’appello una questione tale che, per essere accolta, presuppone una qualificazione giuridica della domanda diversa da quella adottata dal primo giudice.

Questo principio, applicato alla materia del risarcimento del danno, comporta che quando la pronuncia sull’esistenza e sulla risarcibilità del danno civile dipenda dalla qualificazione della domanda, l’appello con cui si deduca l’inesistenza del danno rimette necessariamente in discussione anche la suddetta qualificazione, ed impedisce la formazione del giudicato.

Nel nostro caso pertanto, una volta accolta dal Tribunale la domanda di risarcimento del danno proposta da D.P.R. e C., ed una volta proposta impugnazione avverso il capo di sentenza che ha ritenuto esistente quel danno, il giudice d’appello venne per ciò solo investito del potere di riqualificare ex officio la domanda di risarcimento.

Questi principi sono da molti anni pacifici nella giurisprudenza di questa Corte: a partire da Sez. 3, Sentenza n. 2734 del 25/06/1977 (in seguito sempre conforme), la quale appunto stabilì che “quando la qualificazione giuridica dei fatti costituisce esclusivamente una premessa logica della decisione di merito e non una questione formante oggetto di una specifica ed autonoma controversia, l’oggetto della pronuncia del giudice è costituito esclusivamente dall’attribuzione (…) del bene della vita conteso, onde il giudicato si forma sull’accoglimento o sul rigetto della domanda e soltanto in via indiretta e mediata sulle premesse meramente logiche della decisione; con la conseguenza che, se viene impugnata la pronunzia sul merito, il giudice dell’impugnazione non è in alcun modo vincolato ai criteri seguiti dal primo giudice per procedere alla qualificazione giuridica dei fatti”.

A tale principio deve pertanto darsi, in questa sede, continuità.

  1. Il secondo motivo del ricorso principale.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 1223,2043,2056,2059,2697,2727 e 2729 c.c.; art. 115 c.p.c.; artt. 40 e 41 c.p., artt. 2,3 e 29 Cost..

Deducono, al riguardo, che – anche a prescindere dall’applicabilità al presente giudizio dell’art. 1225 c.c. – la Corte d’appello avrebbe comunque violato le regole che disciplinano il rapporto di causalità materiale tra illecito e danno.

Assumono che, nel caso di specie, si sarebbe dovuto ritenere conforme a normalità che i fratelli di persona nata con gravi malformazioni soffrano per le condizioni del proprio familiare, e di conseguenza si sarebbe dovuta affermare, invece che negare, l’esistenza d’un valido nesso di causa tra l’errore dei sanitari e il danno non patrimoniale patito dagli odierni ricorrenti.

Soggiungono essere “assolutamente irrilevante” (così il ricorso, p. 44) la circostanza che essi siano nati dopo la commissione del fatto illecito. Sostengono di avere anch’essi diritto a vivere in una famiglia serena, e che tale diritto è stato leso dall’errore commesso dai sanitari, i quali – provocando le lesioni al loro fratello prenato F. – fecero sì che essi, alla loro nascita, vennero a trovarsi in una “una drammatica situazione familiare”.

2.2. Il motivo è infondato.

E’ irrilevante, nel presente giudizio, stabilire se il pregiudizio del quale gli odierni ricorrenti chiedono il ristoro debba essere disciplinato dalle regole sulla causalità materiale (dettate dagli artt. 40 e 41 c.p.), ovvero da quelle sulla causalità giuridica (art. 1225 c.c.), perchè tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, tutte le suddette regole impediscono di ravvisare un valido nesso di causa tra la condotta del sanitario che provochi lesioni ad un neonato, e il disagio dei fratelli venuti al mondo, rispettivamente, uno e sei anni dopo.

2.3. Tra quella condotta e quel danno non v’è, in primo luogo, causalità materiale.

Il concepimento e la nascita d’un essere umano sono conseguenze di atti umani coscienti e volontari.

Qualsiasi atto umano cosciente e volontario, in quanto libero nel fine e non necessitato, per risalente opinione (filosofica, prima che giuridica), interrompe qualsiasi nesso di causa.

Mentre è infatti necessità fisica – ad esempio – che un grave sia attratto al suolo con un’accelerazione di 9,8 metri al secondo quadrato; è necessità logica che il quadrato di quattro sia sedici; è necessità chimica che idrogeno ed ossigeno formino una molecola di acqua, la scelta di generare o non generare figli non è una conseguenza necessitata di alcun atto o fatto altrui.

Ne consegue che la scelta dei genitori degli odierni ricorrenti di generare dei figli non può dirsi “conseguenza” dell’errore commesso dai sanitari. E se quella scelta non fu conseguenza dell’errore medico, nemmeno potrà esserlo il disagio e gli altri pregiudizi lamentati dagli odierni ricorrenti, venuti al mondo per effetto di quella scelta.

2.4. Tra la condotta dei sanitari e il danno lamentato dagli odierni ricorrenti, in secondo luogo, non può esservi nemmeno un rapporto di causalità c.d. giuridica.

Le Sezioni Unite di questa Corte, infatti, chiamate a comporre i contrasti circa l’interpretazione dell’art. 1223 c.c., e sul modo di intendere il concetto di “danni immediati e diretti”, hanno stabilito che:

(a) i danni “mediati e indiretti”, che l’art. 1223 c.c. esclude dal novero della risarcibilità, non vanno confusi coi danni c.d. “di rimbalzo o di riflesso”, i quali pure possono essere considerati conseguenza immediata e diretta dell’illecito;

(b) danni “da rimbalzo” sono quelli che:

(b’) costituiscono una “conseguenza indefettibile” dell’illecito; (b”) attingono in modo immediato persone diverse dalla vittima primaria dall’illecito;

 (b”’) attingono persone collegate da un “legame significativo” già esistente con il soggetto danneggiato in via primaria (per tutti questi principi si veda la motivazione di Sez. U, Sentenza n. 9556 del 01/07/2002).

Nel nostro caso, nessuno dei requisiti indicati sub (b) sussiste. Non il primo, perchè la nascita degli odierni ricorrenti non può dirsi una “conseguenza indefettibile” dell’errore commesso dai medici. Non il secondo, perchè manca l’immediatezza: al momento del fatto illecito, infatti, nessuno degli odierni ricorrenti ancora esisteva.

Non il terzo, perchè al momento della commissione dell’illecito non esisteva ancora alcun “legame significativo” tra la vittima primaria ed i suoi fratelli, suscettibile di essere attinto dall’illecito.

2.5. Fin qui gli argomenti giuridici.

Le deduzioni dei ricorrenti appaiono tuttavia non condivisibili anche sul piano della logica formale.

Ammettere, infatti, che il fratello postumo d’un bimbo nato invalido per colpa d’un medico possa domandare a quest’ultimo il risarcimento del danno consistito nel nascere in una famiglia non serena, produrrebbe i seguenti effetti paradossali:

(a) in teoria, anche la madre potrebbe essere ritenuta responsabile del suddetto danno, per aver messo al mondo un secondo figlio, pur sapendo della preesistenza d’un fratello invalido;

(b) non solo nel caso di errore medico, ma dinanzi a qualsiasi fatto illecito lesivo dell’integrità psicofisica, tutti i parenti postumi della vittima primaria potrebbero domandare un risarcimento al responsabile; e sinanche il coniuge che contragga le nozze dopo l’infortunio del partner sarebbe legittimato alla richiesta di risarcimento, senza limiti di generazioni o di tempo;

(c) non solo nel caso di danno non patrimoniale, ma anche per il danno patrimoniale i nati postumi potrebbero domandare il risarcimento all’autore dell’illecito: così, ad esempio, i figli postumi del creditore insoddisfatto potrebbero pretendere il danno dal debitore insolvente, per essere nati in una famiglia povera.

L’evidente insostenibilità di tali approdi evidenzia, in virtù della regola della reductio ad absurdum, l’erroneità del presupposto su cui si fondano, e cioè che persone non solo non nate, ma neanche concepite al momento della commissione del fatto illecito, possano domandare al responsabile di questo un risarcimento.

2.6. Resta solo da aggiungere che gli argomenti appena spesi non sono contrastati dal precedente di questa Corte, nel quale venne ammessa la risarcibilità del danno patito dai fratelli di persona nata invalida in conseguenza d’un errore dei sanitari (Sez. 3, Sentenza n. 16754 del 02/10/2012). In quel caso infatti, il risarcimento venne chiesto dai fratelli prenati rispetto alla vittima primaria, e ciò rende inapplicabili al presente giudizio i principi affermati dalla sentenza appena ricordata, senza alcuna necessità di ridiscuterne qui la saldezza.

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  1. Il primo motivo del ricorso incidentale.

3.1. Col primo motivo di ricorso l’amministrazione ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 2059 c.c..

Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello avrebbe duplicato il risarcimento del danno non patrimoniale patito da D.P.F..

Il Tribunale, infatti, nella stima del danno non patrimoniale dapprima monetizzato il danno alla salute in base ai criteri predisposti in via equitativa dal Tribunale di Milano, e poi aveva aumentato il risultato per tener conto dei pregiudizi alla vita di relazione della vittima.

In particolare, il primo giudice aveva liquidato il danno biologico in base alle suddette tabelle, ed aggiunto un ulteriore importo di 361.465 Euro, pari alla metà del danno biologico, per tenere conto “della totale inesistenza della vita di relazione ed al solo fine di adeguare il risarcimento alla peculiare condizione del caso”.

Pertanto, conclude la ricorrente incidentale, poichè il ristoro dei pregiudizi relazionali era stato già considerato dal Tribunale con l’elevare il risarcimento standard del danno biologico di 361.465 Euro, la Corte d’appello liquidando un ulteriore importo a tale titolo ha duplicato il risarcimento.

3.2. Del ricorso incidentale tutti i controricorrenti hanno eccepito l’inammissibilità, sotto vari profili.

3.2.1. D.P.C. e R. hanno eccepito la tardività del ricorso incidentale, perchè ad essi notificato presso i rispettivi genitori, i quali a causa del raggiungimento della maggiore età degli intimati avevano perduto il potere rappresentativo di cui all’art. 320 c.c..

Tale eccezione è inammissibile per difetto di interesse.

Il ricorso incidentale dell’Università, infatti, anche se indica tra i destinatari della notifica D.P.C. e R., non ha censurato alcuna statuizione della sentenza d’appello che li riguardi.

Gli stessi D.P.C. e R., infatti, correttamente ammettono nel loro controricorso (p. 21) che “l’Università nulla ha lamentato nei confronti dei sigg.ri D.P.R. e D.P.C.”.

Pertanto, non potendo nuocere in alcun modo il ricorso dell’Università alla posizione dei suddetti, nemmeno mette conto stabilire se il ricorso fu ad essi notificato tempestivamente o intempestivamente.

Nemmeno è necessario scrutinare tale eccezione ai fini delle spese di lite, dal momento che, mancando qualsiasi domanda dell’Università nei confronti dei germani D.P., nemmeno sarebbe concepibile una sua soccombenza rispetto ad essi.

3.2.2. La difesa di D.P.F., come in epigrafe rappresentato, ha poi eccepito l’inammissibilità del ricorso dell’Università per tardività.

A fondamento di tale eccezione ha formulato una tesi così riassumibile:

(-) D.P.F., minorenne all’epoca dell’introduzione del giudizio d’appello, divenne maggiorenne, e venne dichiarato interdetto, nel corso del giudizio di gravame (protrattosi per ben nove anni);

(-) l’Università venne portata a conoscenza di tale circostanza allorchè le venne notificata la copia esecutiva della sentenza d’appello (18.4.2014) ed il precetto (18.9.2014), atti dai quali risultava che tutore dell’interdetto era la madre, D.S.G.;

(-) l’Università tuttavia notificò il suo ricorso per cassazione non a D.S.G. nella qualità di tutore di D.P.F., ma a D.S.G. “quale genitore e legale rappresentante di D.P.F.” (così il controricorso, p. 20).

Questo avrebbe comportato, secondo la difesa del controricorrente, l’”inesistenza” della notifica.

3.2.3. L’eccezione sopra riassunta è manifestamente infondata.

Il ricorso dell’Università è stato notificato a D.S.G. quale rappresentante di D.P.F., ed è lo stesso controricorrente ad ammettere che a quella data D.S.G. era effettivamente la rappresentante di D.P.F..

L’atto, dunque, ha raggiunto il suo scopo, e nulla rileva quale fosse il titolo del potere rappresentativo del destinatario: se, cioè, la legge (art. 320 c.c.) od il provvedimento giurisdizionale di interdizione.

3.3. Nel merito, il primo motivo del ricorso incidentale è infondato.

La Corte d’appello, infatti, non ha liquidato nuove voci di danno in aggiunta a quelle già liquidate dal Tribunale, nè ha risarcito pregiudizi identici, chiamandoli con nomi diversi.

La Corte d’appello ha semplicemente ritenuto che l’importo liquidato dal Tribunale a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale fosse incongruo, rispetto alle circostanze del caso concreto, e ne ha perciò elevato l’ammontare (come si desume dalla p. 13, secondo capoverso, della sentenza impugnata): si tratta dunque d’una valutazione di merito, non censurabile in questa sede.

  1. Il secondo motivo del ricorso incidentale.

4.1. Col secondo motivo di ricorso l’Università lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 1223 e 2056 c.c..

Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello ha sovrastimato il danno patrimoniale da soppressione della capacità di lavoro patito dalla vittima primaria.

Espone che la Corte d’appello ha liquidato tale danno in forma di capitale, ottenuto capitalizzando il reddito annuo che la vittima, se fosse stata sana, avrebbe verosimilmente guadagnato (determinato in via equitativa in misura pari al triplo della pensione sociale).

Tuttavia, prosegue la ricorrente incidentale, la capitalizzazione sarebbe dovuta avvenire in base ad un coefficiente corrispondente all’età che la vittima avrebbe avuto al momento dell’ingresso nel mondo del lavoro, perchè è solo da quel momento che nel patrimonio della vittima si sarebbe iniziato a produrre il mancato guadagno.

4.2. Il motivo è fondato nella parte in cui deduce la violazione dell’art. 1223 c.c..

Il danno patrimoniale derivante dalla perdita definitiva della capacità di lavoro è un danno permanente.

I danni permanenti possono essere liquidati sia in forma di rendita (art. 2057 c.c.), sia in forma di capitale.

Per trasformare in capitale una rendita negativa, qual è la perdita costante e definitiva d’un reddito atteso, può procedersi col metodo della capitalizzazione, consistente nel moltiplicare il reddito perduto per un coefficiente di costituzione delle rendite vitalizie, ovvero un numero idoneo a trasformare il valore d’una rendita percepibile per anni in un capitale di valore equivalente.

I coefficienti di costituzione delle rendite vitalizie vengono calcolati sulla base delle tavole di mortalità della popolazione residente, e variano in funzione inversa dell’età dell’avente diritto: minore è l’età di questi, maggiore è il coefficiente (e quindi il prodotto dell’operazione).

4.2. Quando il danno da perdita della capacità di lavoro sia patito da persona che aveva già, al momento del fatto illecito, un reddito da lavoro, questa Corte ha già ripetutamente affermato che la liquidazione del danno in esame deve avvenire:

(a) sommando e rivalutando i redditi perduti dalla vittima, a causa dell’infortunio, dal momento dell’illecito al momento della liquidazione: per tale periodo, infatti, il lucro cessante è certo e già verificatosi;

(b) capitalizzando i redditi futuri che la vittima presumibilmente perderà, dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al momento in cui si compie l’operazione di liquidazione (Sez. 3, Sentenza n. 5795 del 11/06/1998; Sez. 3, Sentenza n. 11439 del 18/11/1997; Sez. 3, Sentenza n. 6403 del 28/11/1988; Sez. 3, Sentenza n. 5850 del 30/10/1980).

4.3. Analogo criterio non può, invece, essere adottato quando la capacità di lavoro venga perduta da un fanciullo o, come nel nostro caso, da un neonato.

Per comprendere questo principio occorre muovere dal rilievo, già da molti anni compiuto da questa Corte, che la c.d. “incapacità lavorativa” non è il danno: essa è solo la causa del danno, il quale è invece costituito dalla perdita o dalla riduzione del reddito da lavoro (così già, lucidamente, Sez. 3, Sentenza n. 3961 del 21/04/1999, secondo cui “la riduzione della cosiddetta capacità lavorativa specifica non costituisce danno in sè (…), ma rappresenta invece una causa del danno da riduzione del reddito).

Nel caso in cui l’infortunio totalmente invalidante sia patito da un lavoratore, la causa (perdita della capacità di lavoro) e l’effetto (perdita del reddito) sono contestuali. Quando si verifica la prima, sorge anche il secondo, e di conseguenza varranno le regole liquidatorie sopra ricordate: si dovrà procedere alla sommatoria dei redditi passati, ed alla capitalizzazione dei redditi futuri, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione.

Quando, invece, la perdita della capacità di lavoro sia patita da soggetto che non abbia ancora raggiunto l’età lavorativa, si verifica uno scarto temporale tra il momento in cui si verifica la causa di danno (la perdita della capacità di lavoro) e quello in cui si manifesterà il suo effetto (la perdita del reddito da lavoro).

Quest’ultimo infatti non sorge al momento del fatto illecito, per l’ovvia considerazione che il minore, anche se fosse rimasto sano, non avrebbe comunque prodotto redditi, e di conseguenza non poteva perderli.

Il danno patito dal minore che perda la capacità di lavoro inizierà, invece, a prodursi nel momento in cui la vittima, raggiunta l’età nella quale, se fosse rimasto sano, avrebbe verosimilmente iniziato a lavorare, dovrà rinunciare al lavoro ed al reddito da esso ricavabile.

Per tenere conto di questo divario temporale tra il momento dell’illecito ed il momento di insorgenza del danno il giudice di merito, quando liquida il danno permanete col metodo della capitalizzazione, può teoricamente ricorrere a due sistemi:

(a) capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento del danno, e poi ridurre il risultato moltiplicandolo per il c.d. coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione;

(b) capitalizzare il reddito perduto in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento in cui avrebbe presumibilmente iniziato a lavorare.

Diversamente, infatti, la vittima si vedrebbe assegnare una somma di denaro a titolo di ristoro di redditi mai perduti, e ciò costituirebbe una violazione dell’art. 1223 c.c..

4.4. La sentenza impugnata non si è attenuta a questi principi.

Col proprio atto d’appello, infatti, l’Università si era doluta del fatto che la Corte d’appello avesse liquidato il danno da perdita della capacità di lavoro patito da D.P.F. omettendo di capitalizzare il reddito da questi perduto in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età che la vittima avrebbe avuto al momento di ingresso nel mondo del lavoro.

La Corte d’appello ha rigettato tale doglianza, ma totalmente travisandone il senso: si legge infatti a p. 9, ultimo capoverso, e 10, primo capoverso, della sentenza impugnata, che era facoltà del Tribunale, nel liquidare equitativamente il danno in questione, fare riferimento alla “pensione sociale del giorno in cui è stata decisa la controversia, anzichè a quella del giorno dell’evento”.

Così giudicando, la Corte d’appello da un lato sembra avere frainteso l’effettivo contenuto dell’appello proposto dall’Università, col quale si lamentava che la sovrastima del danno patrimoniale era dipesa non già dall’aver posto a base del calcolo un reddito sovrastimato, ma dall’aver adottato un coefficiente di capitalizzazione sovrastimato.

Ann.

Dall’altro lato, in ogni caso, la liquidazione in forma di capitale sarebbe dovuta avvenire, per quanto detto, ponendo a base del calcolo un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al momento in cui avrebbe verosimilmente iniziato a lavorare; ovvero, se tale età fosse già trascorsa al momento della decisione d’appello, in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione (nel 2013, epoca della sentenza d’appello, D.P.F. aveva infatti ormai 24 anni compiuti di età).

4.5. Rispetto ai rilievi che precedono, non sembrano decisive le controdeduzioni svolte dai coniugi D.P. alle pp. 31-37 del proprio controricorso.

I controricorrenti al secondo motivo del ricorso principale hanno opposto tre eccezioni:

(a) che esso non sarebbe decisivo, in quanto investe una soltanto delle plurime rationes decidendi su cui la sentenza impugnata si fonda, sul punto della stima del danno da incapacità di lavoro;

(b) che esso sarebbe comunque infondato, perchè la statuizione impugnata è conforme al consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui “il criterio di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922 non è tassativo ed inderogabile”;

(c) infine, che i coefficienti di capitalizzazione invocati dalla ricorrente (quelli, appunto, allegati al r.d. 1403 del 1922) sono anacronistici, perchè basati sulle tavole di mortalità ricavate dal censimento del 1911.

4.5.1. La prima di tali eccezioni non coglie nel segno, in quanto la sentenza impugnata non contiene affatto plurime rationes decidendi. La Corte d’appello ha infatti rigettato l’appello dell’Università, su questo punto, limitandosi ad affermare che il danno in questione va liquidato in via equitativa, e quindi può essere stimato anche con criteri diversi dai coefficienti allegati al R.D. n. 1403 del 1922.

Si tratta dunque d’una sola ratio decidendi (errata, per quanto detto, giacchè l’appellante non pose il problema di quale coefficiente applicare, ma dell’età cui il coefficiente comunque individuato doveva corrispondere).

4.5.2. La seconda delle suddette eccezioni è infondata, in quanto non pertinente rispetto al contenuto dell’impugnazione. L’Università pose infatti alla Corte d’appello la seguente questione: una volta scelto di liquidare il danno permanente da incapacità di lavoro con la tecnica della capitalizzazione, dovrà scegliersi un coefficiente di capitalizzazione (quale che ne sia la fonte) corrisponde all’età della vittima al momento della nascita, oppure all’età della vittima al momento del presumibile ingresso nel mondo del lavoro?

Ed a tale quesito, per quanto detto, la corte d’appello non ha dato risposta corretta.

4.5.3. La terza delle suddette eccezioni è irrilevante, perchè estranea al thema decidendum in discussione dinanzi a questa Corte.

Stabilire se i coefficienti di cui al R.D. n. 1403 del 1922 siano o no utilizzabili per la stima del danno permanente è questione che dovrà essere riesaminata dal giudice del rinvio, in conseguenza della necessità di liquidare ex novo il danno patrimoniale patito da D.P.F..

Sarà tuttavia opportuno ricordare, a tal riguardo, che questa Corte ha già stabilito il danno permanente da incapacità di guadagno non può essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D. n. 1403 del 1922, i quali, a causa dell’innalzamento della durata media della vita e dell’abbassamento dei saggi di interesse, non garantiscono l’integrale ristoro del danno, e con esso il rispetto della regola di cui all’art. 1223 c.c. (Sez. 3, Sentenza n. 20615 del 14/10/2015).

4.5. La sentenza va dunque cassata con rinvio su questo punto.

La Corte d’appello di Napoli, nel tornare ad esaminare la doglianza proposta dall’Università, applicherà i seguenti principi di diritto:

(A) Il danno da perdita della capacità di lavoro deve essere liquidato:

(à) sommando e rivalutando i redditi già perduti dalla vittima tra il momento del fatto illecito e il momento della liquidazione;

(à’) capitalizzando i redditi che la vittima perderà dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione.

(B) Quando il danno da perdita della capacità di lavoro sia patito da persona che al momento del fatto non era in età da lavoro, la liquidazione deve avvenire:

(b’) sommando e rivalutando i redditi figurativi perduti dalla vittima tra il momento in cui ha raggiunto l’età lavorativa, e quello della liquidazione;

(b”) capitalizzando i redditi futuri, che la vittima perderà dal momento della liquidazione in poi, in base ad un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione;

(b”’) se la liquidazione dovesse avvenire prima del raggiungimento dell’età lavorativa da parte della vittima, la capitalizzazione dovrà avvenire o in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento del presumibile ingresso nel mondo del lavoro; oppure in base ad un coefficiente corrispondente all’età della vittima al momento della liquidazione, ma in questo caso previo abbattimento del risultato applicando il coefficiente di minorazione per anticipata capitalizzazione.

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  1. Il terzo motivo del ricorso incidentale.

5.1. Col terzo motivo del proprio ricorso incidentale l’Università lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, che la sentenza impugnata sia affetta dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo.

Espone, al riguardo, come la Corte d’appello, accogliendo l’appello incidentale proposto dai danneggiati, abbia incrementato la liquidazione del danno patrimoniale patito dalla vittima primaria a dai suoi genitori, e consistente nelle spese mediche e di assistenza sostenute e da sostenere.

Tale danno, osserva la ricorrente, è stato liquidato assumendo in via equitativa che le suddette spese ascendessero ad Euro 600 annui, invece dei 300 Euro annui stimati dal Tribunale.

A tale stima oppone la ricorrente che sul punto la sentenza d’appello è “completamente sfornita di motivazione, non avendo la Corte territoriale operato il minimo riferimento alle condizioni materiali oggettive che giustificherebbero la necessità di una liquidazione maggiore”.

Sostiene che nulla, inoltre, giustificava la maggiore liquidazione compiuta dalla Corte d’appello, anche alla luce della considerazione che la vittima primaria avrebbe goduto della pensione di invalidità e dell’assistenza del Servizio Sanitario Nazionale.

5.2. Il motivo, nella parte in lamenta che la sentenza non avrebbe tenuto conto dell’ausilio che la vittima avrebbe ricevuto dagli enti previdenziali e dal Servizio Sanitario Nazionale, il motivo è inammissibile.

L’Università, infatti, in violazione dei precetti di cui all’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 6, non deduce dove e quando abbia mai dedotto che di tali emolumenti si tenesse conto nella stima del danno; nè donde risulti la prova della percezione di essi da parte del danneggiato; nè l’ammontare di essi.

Sicchè, a fronte dell’evidente esiguità dell’importo liquidato dalla Corte d’appello a titolo delle spese di assistenza, a fronte degli ingenti e notori costi che l’assistenza d’una persona totalmente invalida comporta, non è da escludere che la Corte d’appello abbia determinato le spese di assistenza in misura così modesta proprio perchè ha tenuto conto dei benefici comunque derivanti dall’assistenza e dalla previdenza pubbliche.

5.3. Nella parte, invece, in cui il motivo in esame lamenta l’omesso esame del fatto decisivo, esso è manifestamente infondato, alla luce delle ampie considerazioni svolte a pagina 14, secondo capoverso, della sentenza impugnata.

  1. Le spese.

6.1. Le spese del presente grado di giudizio saranno liquidate dal giudice del rinvio.

6.2. Il rigetto del ricorso principale costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico dei ricorrenti principali di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

la Corte di cassazione:

(-) rigetta il ricorso principale;

(-) rigetta il primo motivo del ricorso incidentale; dichiara inammissibile il terzo motivo del ricorso incidentale;

(-) accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di D.P.R. e D.P.C., in solido, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, il 22 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 12 apri

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