INFEZIONE  OSPEDALIERA DANNO BOLOGNA  PRATO VENEZIA  PADOVA MILANO BRESCIA Rapporto di causalità – Concorso di cause

INFEZIONE  OSPEDALIERA DANNO BOLOGNA  PRATO VENEZIA  PADOVA MILANO BRESCIA Rapporto di causalità – Concorso di cause – Interruzione del nesso di causalità – Causa sopravvenuta sufficiente a determinare l’evento – Infezione nosocomiale. (Cp, articoli 40, 41 e 589) Corte di Cassazione|Sezione 4|Penale|Sentenza|11 luglio 2017| n. 33770 infezione ospedaliera danno

  • AVVOCATO ESPERTO RISARCIMENTO DANNI INFEZIONI OSPEDALIERE CHE CAUSANO MORTE O GRAVI DANNI ANCHE CEREBRALI –infezione ospedaliera dannoAVVOCATO-RECUPERO-CREDITI-BOLOGNA-AZIENDE-BELLA

  • La cassazione ha già avuto modo di affermare che: ‘In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, incombe sul paziente che agisce per il risarcimento del danno l’onere di provare il nesso di causalità tra l’evento di danno (aggravamento della patologia preesistente ovvero insorgenza di una nuova patologia) e l’azione o l’omissione dei sanitari, non potendosi predicare, rispetto a tale elemento della fattispecie, il principio della maggiore vicinanza della prova al debitore, in virtù del quale, invece, incombe su quest’ultimo l’onere della prova contraria solo relativamente alla colpa ex art. 1218 c.c.’ (Cass., ord., 20/08/2018, n. 20812; Cass. 7/12/2017, n. 29315) e che ‘Nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del ‘più probabile che non’, causa del danno, sicchè, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata’ (Cass. 15/02/2018, n. 3704; Cass. 26/07/2017, n. 18392). infezione ospedaliera danno

  • Tali principi vanno ribaditi in questa sede; pertanto, va affermato che, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, provare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del ‘più probabile che non’, la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev’essere rigettata.

  • Va evidenziato che questa conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 11/1/2008, n. 577, pure richiamata dalla ricorrente), secondo cui ‘in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante’.

MALASANITA-RISARICMENTO-VELOCE-
OTTENRE RISARICMENTO MALASANITA’

  • Questo principio venne, infatti, affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento ‘qualificato’, allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sè, in assenza di fattori alternativi ‘più probabili’, nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicchè non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, e non la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c..

  • Si rileva, al riguardo che, in punto di nesso causale in tela di responsabilità medica sono stati affermati i seguenti principi: “In tema di responsabilità professionale del medico chirurgo, una accurata ricognizione del complesso rapporto intercorrente tra la fattispecie del nesso causale e quella della colpa, con specifico riferimento ai rispettivi, peculiari profili probatori, consente la enunciazione dei seguenti principi:

  • 1) il nesso di causalità è elemento strutturale dell’illecito, che corre – su di un piano strettamente oggettivo e secondo una ricostruzione logica di tipo sillogistico – tra un comportamento (dell’autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora utilmente qualificabile in termini di damnum iniuria datum) e l’evento;

  • 2) nell’individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento, si prescinde, in prima istanza, da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto oggettivata, da parte dell’autore del fatto, essendo il concetto logico di previsione insito nella categoria giuridica della colpa (elemento qualificativo dell’aspetto soggettivo del torto, la cui analisi si colloca in una dimensione temporale successiva in seno alla ricostruzione della complessa fattispecie dell’illecito);

AVVOCATO-ESPERTO-MALASANITA-BOLOGNA-RAVENNA-FORLI-CESENA
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  • 3) il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche solo contribuito a generare, tale obbiettiva relazione col fatto deve considerarsi causa dell’evento stesso;

  • 4) il nesso di causalità giuridica è, per converso, relazione eziologica per cui i fatti sopravvenuti, di per sé soli idonei a determinare l’evento, interrompono il nesso con il fatto di tutti gli antecedenti causali precedenti;

  • 5) la valutazione del nesso di causalità giuridica, tanto sotto il profilo della dipendenza dell’evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto l’aspetto della individuazione del novus actus interveniens, va compiuta secondo criteri a) di probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se appare non praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi scientifiche di copertura; con l’ulteriore precisazione che, nell’illecito omissivo, l’analisi morfologica della fattispecie segue un percorso affatto speculare – quanto al profilo probabilistico – rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri termini, accertare il collegamento evento/comportamento omissivo in termini di probabilità inversa, onde inferire che l’incidenza del comportamento omesso si pone in relazione non/probabilistica con l’evento (che, dunque, si sarebbe probabilmente avverato anche se il comportamento fosse stato posto in essere), a prescindere, ancora, dall’esame di ogni profilo di colpa intesa nel senso di mancata previsione dell’evento e di inosservanza di precauzioni doverose da parte dell’agente”. (Cass. n. 7997 del 2005).

  • Nell’ambito della responsabilità civile medica il nesso causale in senso materiale suppone che rispetto all’evento dannoso la condotta commissiva od omissiva del sanitario (riferibile alla struttura, che opera attraverso di esso) si ponga come antecedente necessario, anche in concorso con altri, rispetto alla verificazione dell’evento.

  • Il problema del nesso causale, tuttavia, sotto il profilo probatorio, allorquando la responsabilità medica ha natura contrattuale (com’è pacifico nella vicenda di cui è processo), assume connotazioni particolari.

  • Si rileva, in proposito, che allorquando la responsabilità medica venga invocata a titolo contrattuale, cioè nel presupposto che fra il paziente ed il medico e/o la struttura sanitaria sia intercorso un rapporto contrattuale (o, come si dice, da ‘contatto’), l’individuazione dell’onere probatorio riguardo al nesso causale deve tenere conto della circostanza che la responsabilità è invocata in forza di un rapporto obbligatorio corrente fra le parti, nell’ambito del quale il medico e/o la struttura sanitaria si era impegnata ad intervenire sulla persona del paziente assumendo un obbligo di adoperarsi per prestare la cura rispetto ad una situazione lamentata dal paziente riguardo alla salute della propria persona.

  • Qualora l’impegno curativo sia stato assunto senza particolari limitazioni circa la sua funzionalizzazione a risolvere il problema presentato dal paziente, essendo la vicenda dello svolgimento del rapporto curativo oggetto di un rapporto obbligatorio e, dunque, connotandosi secondo lo schema per cui era dovuta una certa prestazione, quella curativa, che, sebbene non dovesse ex necesse portare ad un risultato risolutivo (non trattandosi, secondo un vecchio schema dottrinale di un’obbligazione di risultato, bensì di mezzi), imponeva la sua esecuzione secondo il meglio della lex artis e, quindi, in modo diligente, nel contempo implicava l’affidamento del paziente alla cura e, quindi, ad un’ingerenza sulla propria persona, si deve ritenere che, dal punto di vista del danneggiato la prova del nesso causale quale fatto costitutivo della domanda intesa a far valere la responsabilità per l’inadempimento del rapporto curativo si sostanzia nella dimostrazione che l’esecuzione del rapporto curativo, che si sarà articolata con comportamenti positivi ed eventualmente omissivi, si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di preteso danno, che è rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui si era richiesta la prestazione o dal suo aggravamento fino anche ad un esito finale come quello mortale o dall’insorgenza di una nuova patologia che non era quella con cui il rapporto era iniziato.

  • La dimostrazione di uno di tali eventi, connotandosi come inadempimento sul piano oggettivo, essendosi essi verificati a seguito dello svolgimento del rapporto curativo, e, quindi, necessariamente – sul piano della causalità materiale – quale conseguenza del suo svolgimento, è ciò che deve darsi dal danneggiato ai fini della dimostrazione del nesso causale.

  • Questi principi, che, in definitiva evidenziano la particolarità del problema del nesso causale nella responsabilità medica di natura contrattuale, si pongono in linea che quanto è stato affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 577 del 2008, riguardo alla quale esattamente l’Ufficio del Ruolo e del Massimario ha correttamente individuato il seguente principio di diritto (che trova corrispondenza in quanto la sentenza ha affermato nei paragrafi 5.1. e seguenti della sua motivazione):

  • “In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante (nella specie la S.C. ha cassato la sentenza di merito che – in relazione ad una domanda risarcitoria avanzata da un paziente nei confronti di una casa di cura privata per aver contratto l’epatite C asseritamente a causa di trasfusioni con sangue infetto praticate a seguito di un intervento chirurgico – aveva posto a carico del paziente l’onere di provare che al momento del ricovero egli non fosse già affetto da epatite)”.

 

Le infezioni nosocomiali sono delle infezioni contratte durante un soggiorno in uno stabile ospedaliero (ospedale, clinica, ecc.). Più precisamente si parta di un’infezione nosocomiale quando tale infezione si presenta nel paziente nel momento dell’ingresso in ospedale, quando prima non sussisteva.

Le cause delle infezioni nosocomiali sono la presenza di germi o batteri nello stabile ospedaliero e possono essere trasmesse in diverse maniere: difese immunitarie fragili, per contatto cutaneo, trasmissione incrociata tra malati, il personale, contaminazione dell’ambiente ospedaliero (acqua, aria, materiale, alimenti ecc.).

 

In tema di responsabilità professionale del medico, in relazione al nesso causale tra la condotta colposa del medico e l’evento lesivo è da escludere che possano avere una efficacia interruttiva le infezioni sopraggiunte durante il ricovero ospedaliero. Non è infatti configurabile il sopravvenire di un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto alla condotta originaria, cui possa annettersi valore interruttivo del rapporto di causalità: ciò perché l’”infezione nosocomiale” è uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto nei casi di non breve permanenza nei raparti di terapia intensiva, ove lo sviluppo dei processi infettivi è tutt’altro che infrequente in ragione delle condizioni di grave defedazione fisica dei pazienti. 

RICORDO DI DECESSI PER INFEZIONI NOSOCOMIALI

In seguito al ricovero, la (OMISSIS), il (OMISSIS), veniva sottoposta presso il Policlinico ad un intervento chirurgico di riduzione chiusa di una frattura nasale non a cielo aperto; dopo l’operazione, la donna veniva trasferita nel reparto di rianimazione, dove pero’ decedeva il (OMISSIS) per insufficienza cardiorespiratoria. Secondo la ricostruzione operata dai consulenti del Pubblico ministero e accolta dai giudici di merito, al termine dell’intervento chirurgico si era manifestata nella (OMISSIS) un’encefalopatia ischemica, dalla quale era derivato lo stato comatoso, con progressivo peggioramento delle condizioni generali e conseguente decesso; l’ischemia cerebrale veniva collegato a una carenza d’ossigeno generalizzata a livello cerebrale, indotta dalla condotta della d.ssa (OMISSIS), che aveva determinato un’insufficienza respiratoria a causa della mala gestio delle vie aeree (ed in specie dell’apparato oro tracheale).

Piu’ precisamente la (OMISSIS), secondo le linee guida, avrebbe dovuto assicurare alla paziente una corretta ventilazione polmonare durante l’intervento, pur con il presidio della cannula di Guedel (in concreto utilizzata al posto della piu’ prudente intubazione oro tracheale), per evitare il pericolo, purtroppo verificatosi, di ostruzione delle alte vie respiratorie. La cattiva gestione delle vie aeree da parte della (OMISSIS) – proseguita pur a fronte di segni clinici strumentali della carenza di ossigeno nel sangue durante l’intervento determinava pero’, come detto, una condizione di prolungata ipossia, con conseguente danno cerebrale, in paziente che oltretutto era sottoposta ad operazione chirurgica in sede nasale.

La Corte di merito ha disatteso le doglianze dell’imputata appellante, rivolte contro le valutazioni dei consulenti e alcune dichiarazioni testimoniali delle infermiere (OMISSIS) e (OMISSIS).

Piu’ in particolare, veniva rigettata la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante confronto tra il consulente della difesa e quello del P.M., atteso che la ricostruzione operata da quest’ultimo risultava condivisibile, in quanto argomentata sulla base di dati certi, e che non si ravvisavano contraddizioni fra l’elaborato scritto del consulente prof. (OMISSIS) e le sue dichiarazioni in aula. La Corte d’appello ha poi effettuato una sintetica ricostruzione dei passaggi della vicenda, condividendo le valutazioni del consulente del P.M. a proposito delle manchevolezze della d.ssa (OMISSIS) e della loro rilevanza nel prodursi del corna cerebrale a carico della (OMISSIS). Infine, i giudici del collegio hanno escluso la rilevanza dei segnalati elementi di contraddizione fra le dichiarazioni rese dalle infermiere, ed hanno altresi’ escluso la decisivita’ della rilevanza causale (e la portata interruttiva del nesso di causalita’) delle infezioni contratte dalla vittima all’interno del reparto di rianimazione dopo l’intervento.

Infezioni nosocomiali

Nell’ipotesi di infezione contratta in ambito ospedaliero – cd. infezione nosocomiale – graverà sul soggetto danneggiato, oltre alla prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della patologia ovvero dell’insorgenza di nuove patologie, anche la prova del nesso causale tra il pregiudizio lamentato e l’infezione, secondo un criterio di “probabilità logica”, mentre graverà sulla struttura sanitaria – una volta accertata la sussistenza di tale nesso causale – l’onere di dimostrare di avere diligentemente operato, sia sotto il profilo dell’adozione, ai fini della salvaguardia delle condizioni igieniche dei locali e della profilassi della strumentazione chirurgica eventualmente adoperata, di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, onde scongiurare l’insorgenza di patologie infettive a carattere batterico, sia sotto il profilo del trattamento terapeutico prescritto e somministrato al paziente dal personale medico, successivamente alla contrazione dell’infezione.

Il mancato raggiungimento della prova in ordine agli enunciati profili da parte della struttura sanitaria, ne comporta la responsabilità diretta nella causazione dell’infezione, per non aver messo a disposizione del paziente le attrezzature idonee ad evitare l’insorgenza della complicanza infettiva.

Tribunale Agrigento, 02/03/2016, n.370

Infezione e risarcimento

In tema di danno da infezione trasfusionale, è onere della struttura ospedaliera dimostrare che al momento della trasfusione il paziente avesse già contratto l’infezione per la quale domanda il risarcimento.

Cassazione civile sez. III, 24/09/2015, n.18895

Responsabilità per l’infezione contratta nella struttura ospedaliera

In tema di responsabilità contrattuale di struttura sanitaria e di responsabilità professionale del medico, il paziente ha il solo onere di dedurre qualificate inadempienze, idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del debitore convenuto l’onere di dimostrare o che nessun rimprovero di scarsa diligenza o di imperizia possa essergli mosso o che, pur essendovi stato un suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto alcuna incidenza causale sulla produzione del danno.

(Nella specie, il giudice ha affermato la responsabilità dei sanitari per l’infezione contratta all’interno di struttura ospedaliera da pedone ricoverato in seguito ad investimento, essendo stati pienamente assolti solo gli oneri probatori gravanti sull’investito).

Tribunale Milano sez. I, 16/04/2015, n.4841

avvocato a bologna
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Cassazione – Motivi di ricorso – Mancata assunzione di prova decisiva – Nozione di decisività – Fattispecie relativa a responsabilità medica per omicidio colposo

REPUBBLICA ITALIANA infezione ospedaliera danno

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO infezione ospedaliera danno

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Presidente

Dott. DI SALVO Emanuele – Consigliere

Dott. MONTAGNI Andrea – Consigliere

Dott. CAPPELLO Gabriella – Consigliere

Dott. PAVICH Giuseppe – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 14/10/2016 della CORTE APPELLO di ROMA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. GIUSEPPE PAVICH;

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr. Romano Giulio, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso.

Udito il difensore di Parte Civile avvocato (OMISSIS) del foro di Firenze conclude per l’inammissibilita’ del ricorso; deposita conclusioni scritte e nota spese.

L’avvocato (OMISSIS) del foro di SALERNO in difesa di (OMISSIS) si riporta ai motivi e ne chiede l’accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

  1. La Corte d’appello di Roma, in data 14 ottobre 2016, ha confermato la sentenza di condanna alla pena di giustizia e alle statuizioni civili emessa dal Tribunale di Roma il 15 aprile 2015 nei confronti di (OMISSIS), imputata del delitto di omicidio colposo a lei contestato in rubrica.

1.1. L’addebito mosso alla (OMISSIS), medico anestesista presso il Policlinico (OMISSIS), riguarda le condotte dalla stessa poste in essere nei riguardi della paziente (OMISSIS), che era stata ricoverata presso il nosocomio in relazione agli esiti traumatici di un incidente stradale.

avvocato esperto bologna
avvocato esperto bologna

In seguito al ricovero, la (OMISSIS), il (OMISSIS), veniva sottoposta presso il Policlinico ad un intervento chirurgico di riduzione chiusa di una frattura nasale non a cielo aperto; dopo l’operazione, la donna veniva trasferita nel reparto di rianimazione, dove pero’ decedeva il (OMISSIS) per insufficienza cardiorespiratoria. Secondo la ricostruzione operata dai consulenti del Pubblico ministero e accolta dai giudici di merito, al termine dell’intervento chirurgico si era manifestata nella (OMISSIS) un’encefalopatia ischemica, dalla quale era derivato lo stato comatoso, con progressivo peggioramento delle condizioni generali e conseguente decesso; l’ischemia cerebrale veniva collegato a una carenza d’ossigeno generalizzata a livello cerebrale, indotta dalla condotta della d.ssa (OMISSIS), che aveva determinato un’insufficienza respiratoria a causa della mala gestio delle vie aeree (ed in specie dell’apparato oro tracheale).

Piu’ precisamente la (OMISSIS), secondo le linee guida, avrebbe dovuto assicurare alla paziente una corretta ventilazione polmonare durante l’intervento, pur con il presidio della cannula di Guedel (in concreto utilizzata al posto della piu’ prudente intubazione oro tracheale), per evitare il pericolo, purtroppo verificatosi, di ostruzione delle alte vie respiratorie. La cattiva gestione delle vie aeree da parte della (OMISSIS) – proseguita pur a fronte di segni clinici strumentali della carenza di ossigeno nel sangue durante l’intervento determinava pero’, come detto, una condizione di prolungata ipossia, con conseguente danno cerebrale, in paziente che oltretutto era sottoposta ad operazione chirurgica in sede nasale.

1.2. La Corte di merito ha disatteso le doglianze dell’imputata appellante, rivolte contro le valutazioni dei consulenti e alcune dichiarazioni testimoniali delle infermiere (OMISSIS) e (OMISSIS).

Piu’ in particolare, veniva rigettata la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante confronto tra il consulente della difesa e quello del P.M., atteso che la ricostruzione operata da quest’ultimo risultava condivisibile, in quanto argomentata sulla base di dati certi, e che non si ravvisavano contraddizioni fra l’elaborato scritto del consulente prof. (OMISSIS) e le sue dichiarazioni in aula. La Corte d’appello ha poi effettuato una sintetica ricostruzione dei passaggi della vicenda, condividendo le valutazioni del consulente del P.M. a proposito delle manchevolezze della d.ssa (OMISSIS) e della loro rilevanza nel prodursi del corna cerebrale a carico della (OMISSIS). Infine, i giudici del collegio hanno escluso la rilevanza dei segnalati elementi di contraddizione fra le dichiarazioni rese dalle infermiere, ed hanno altresi’ escluso la decisivita’ della rilevanza causale (e la portata interruttiva del nesso di causalita’) delle infezioni contratte dalla vittima all’interno del reparto di rianimazione dopo l’intervento.

  1. Avverso la prefata sentenza ricorre la (OMISSIS), per il tramite del suo difensore di fiducia.

2.1. Il ricorso consta di un unico motivo, con il quale la deducente lamenta vizio di motivazione e mancata assunzione di una prova decisiva: in specie, oggetto di lagnanza e’ il mancato accoglimento della richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante confronto fra il consulente del P.M. e quello della difesa (confronto gia’ oggetto di richiesta in primo grado, rigettata dal Tribunale); tale acquisizione probatoria, che alla luce della motivazione della sentenza di primo grado avrebbe avuto portata decisiva, non e’ stata pero’ disposta, sebbene la Corte di merito potesse, dal confronto fra gli esperti, trarre motivi per giungere a un convincimento diverso da quello del primo giudice. Prosegue la ricorrente evidenziando la contraddittorieta’ dell’affermazione del consulente del P.M. il quale, nel corso del giudizio, ha dichiarato di non avere mai visionato il cartellino anestesiologico, pur avendolo criticato a pag. 47 dell’elaborato da lui scritto, e di poter solo supporre che tipo di anestesia fosse stata praticata, cosi’ ponendo a base delle sue conclusioni mere ipotesi interpretative in luogo di certezze. Cio’ a fronte delle diverse conclusioni cui e’ giunto il consulente della difesa.

Ed ancora, l’esponente osserva che l’uso della cannula di Guedel era stato ritenuto idoneo per il tipo d’intervento in corso; percio’ occorreva accertare che la desaturazione ritenuta decisiva ai fini del decesso fosse stata determinata dalla mancata ossigenazione segnalata dal macchinario d’allarme, e che tale segnalazione non fosse stato preso nella dovuta considerazione dalla d.ssa (OMISSIS).

Infine, la ricorrente ritiene che l’invocato supplemento istruttorio avrebbe consentito di fugare ogni dubbio circa la rilevanza causale delle infezioni insorte nel reparto di terapia intensiva, in rapporto all’accertamento della concausa preesistente ravvisata nella ridotta ossigenazione della paziente durante l’intervento, in realta’ durata non piu’ di cinque minuti; in alternativa, la mancata tempestiva maggiore ossigenazione attribuita alla (OMISSIS) potrebbe non essere stata la sola causa del decesso e, quindi, un suo eventuale profilo di colpa sarebbe ascrivibile alla colpa lieve di cui alla L. n. 189 del 2012, articolo 3.

  1. Va dato atto che all’odierna udienza il difensore delle costituite parti civili ha rassegnato conclusioni scritte e depositato nota spese.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso e’ infondato.

1.1. Va in primo luogo ricordato che deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’articolo 606 c.p.p., lettera d) la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (per tutte vds. Sez. 4, n. 6783 del 23/01/2014, Di Meglio, Rv. 259323, nella quale si evidenzia che la “decisivita’” della prova suppletiva non puo’ riconoscersi laddove sia ravvisabile il carattere “meramente congetturale” delle conseguenze che la difesa intendeva trarre dall’assunzione di detta prova).

Deve poi aggiungersi che il carattere di “prova decisiva” e’ escluso, dalla giurisprudenza di legittimita’, sia con riguardo al confronto (cfr. Sez. 2, n. 35661 del 16/05/2014, D’Aponte e altri, Rv. 260343), sia con riguardo all’accertamento peritale (cfr. da ultimo Sez. 2, n. 52517 del 03/11/2016, Russo, Rv. 268815).

Nella specie, l’invocato confronto fra i due consulenti (del P.m. e della difesa) doveva vertere oltretutto, secondo la prospettazione della ricorrente, su circostanze la cui decisivita’ era tutta da dimostrare, non bastando all’uopo la semplice ipotesi – formulata nel ricorso – di un’eventuale acquisizione di elementi potenzialmente di segno diverso rispetto alla ricostruzione accolta dai giudici di merito, e tali da poter fugare i dubbi derivanti dalla diversita’ delle due ipotesi formulate dai consulenti di parte.

A fronte di cio’, la Corte distrettuale ha congruamente motivato il proprio convincimento, osservando che le conclusioni del consulente del P.M. si basavano su dati certi (esame necroscopico e autoptico) e pervenivano, con argomentazioni esenti da errori o vizi logici, all’accertamento della causa del decesso della (OMISSIS), riconducibile alla prolungata ipossia indotta nella paziente dalla condotta addebitata alla (OMISSIS) nel corso dell’intervento: condotta che i giudici di merito ricollegano non gia’ all’impiego della cannula di Guedel, ma all’omesso costante controllo che le vie aeree fossero libere (controllo che, se fosse stato eseguito, non avrebbe determinato l’insorgere dell’ipossia) e al fatto che la carente ossigenazione della paziente e’ intervenuta, per un tempo giudicato comunque eccessivamente lungo, pur a fronte della segnalazione di tale condizione proveniente dal segnale di allarme del macchinario che controllava il livello di ossigeno del sangue.

1.2. A fronte dell’andamento affatto congetturale delle lagnanze difensive sul punto, e’ altresi’ adeguato il percorso argomentativo della Corte di merito a proposito della non idoneita’ interruttiva, in relazione al nesso causale tra la condotta e l’evento, delle infezioni sopraggiunte sulla paziente nel reparto di terapia intensiva: non e’ in sostanza configurabile, nella specie, il sopravvenire di un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto alla condotta originaria, cui la giurisprudenza annette valore interruttivo del rapporto di causalita’ (si veda per tutte Sez. 4, n. 25689 del 03/05/2016, Di Giambattista e altri, Rv. 267374, ove la Corte ha evidenziato come l'”infezione nosocomiale” sia uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto nei casi di non breve permanenza nei raparti di terapia intensiva, ove lo sviluppo dei processi infettivi e’ tutt’altro che infrequente in ragione delle condizioni di grave defedazione fisica dei pazienti).

1.3. In tale quadro, appare evidente che non ha alcun pregio la prospettazione difensiva mirante all’inquadramento della condotta della (OMISSIS) nell’ambito della “colpa lieve”, ai fini di quanto stabilito dalla L. n. 189 del 2012, articolo 3, vigente all’epoca del fatto.

Va infatti osservato, in primo luogo, che, secondo quanto si legge alle pagine 6 e 8 della sentenza impugnata, la condotta dell’imputata e’ stata correttamente e motivatamente qualificata come caratterizzata da “grave negligenza”: ragione per la quale e’ stata disattesa la richiesta di applicazione dell’anzidetta disposizione di legge.

Ma pur volendosi prescindere da tale classificazione del grado di colpa e della tipologia di condotta colposa attribuita alla (OMISSIS), deve rilevarsi che essa non risulterebbe in ogni caso aderente alle linee guida e/o alle buone pratiche, non solo sulla base della ricostruzione peritale accolta dalla Corte di merito, ma neppure in base alla stessa prospettazione difensiva; e che, secondo la predetta disposizione, solo il sanitario che “si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunita’ scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”. Di tal che in nessun caso potrebbe ricondursi il caso in esame nella fattispecie abrogativa de qua.

1.4. E’ infine appena il caso di evidenziare che, in ogni caso, l’inosservanza delle linee guida e, comunque, delle buone pratiche clinico assistenziali, nonche’ la (corretta) qualificazione della condotta della ricorrente come caratterizzata da “negligenza” piuttosto che da “imperizia” escluderebbero anche la configurabilita’ dell’ipotesi di non punibilita’ del fatto prevista dal nuovo articolo 590-sexies c.p. (introdotto dalla L. n. 24 del 2017, articolo 6), che oggi disciplina la responsabilita’ degli esercenti le professioni sanitarie in relazione alle fattispecie di omicidio colposo e lesioni personali colpose.

  1. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’ al rimborso, in favore delle parti civili costituite, delle spese di giudizio, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonche’ al rimborso delle spese di giudizio in favore delle parti civili, liquidate in Euro tremila oltre accessori di legge.

 

 

 

Secondo la Suprema Corte (v. Cass. n. 18163/2007 e Cass. n. 1877/2006) il danno terminale sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed è tale da sfociare nella morte. La stessa Corte ha evidenziato la necessità di tener conto di fattori di personalizzazione, escludendo pertanto che la liquidazione possa essere effettuata attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso e non piuttosto in via equitativa tenendo conto delle circostanze del caso concreto.

Tenendo conto dell’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze gemelle Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972-3-4-5 e n. 15350/2015) nella nozione di “danno terminale” deve essere ricompreso ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente.

 

Morte prossimo congiunto – Danno parentale – Privazione di un valore non economico ma personale – Irreversibile perdita del godimento del congiunto – Quantum – Determinazione – Criteri utili

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI RAVENNA

SEZIONE CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Alessandra Medi

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. R.G. 4841/2015 promossa da:

(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. BE.ST., elettivamente domiciliata in VIA (…) (PRESSO AVV. MA.MA.) RAVENNA presso il difensore

(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. BE.ST., elettivamente domiciliata in VIA (…) (PRESSO AVV. MA.MA.) RAVENNA presso il difensore

(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. BE.ST., elettivamente domiciliata in VIA (…) (PRESSO AVV. MA.MA.) RAVENNA presso il difensore

(…) (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. BE.ST., elettivamente domiciliata in VIA (…) (PRESSO AVV. MA.MA.) RAVENNA presso il difensore

ATTORI

contro

(…) SPA (C.F. (…)), con il patrocinio dell’avv. AS.AN. e dell’avv. SP.GI. ((…)) TORRE 18 RUSSI; DI.FR. ((…)) C/O AVV. SP.GI. VIA (…) SAN PANCRAZIO, elettivamente domiciliata in via torri,18 SAN PANCRAZIO – RU., presso il difensore avv. AS.AN.

CONVENUTA

MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato, (…), (…), (…) e (…) convenivano in giudizio la (…) s.p.a. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti iure proprio e iure hereditario, rispettivamente quali moglie e figlie di (…), deceduto in data 18 settembre 2013 in conseguenza di due infezioni cardiache di natura nosocomiale, a cui avevano fatto seguito errati ed inadeguati trattamenti sanitari.

Si costituiva la (…) s.p.a. chiedendo il rigetto della domanda attorea, non ritenendo sussistente alcuna responsabilità in ordine al decesso di (…).

La domanda è fondata e merita di essere accolta nei termini di seguito indicati.

Risulta dalla CTU medico legale svolta in corso di causa, che a (…), di anni 77, a seguito di un controllo cardiologico nel marzo 2013 veniva riscontrata una “stenosi aortica moderata/severa…” con successiva indicazione cardiochirurgica di sostituzione valvolare aortica con protesi biologica, intervento che veniva espletato in data 19/07/13 presso l’Unità Operativa di Cardiochirurgia della Casa di Cura Villa (…) di Cotignola. A parte la comparsa di una fibrillazione atriale recidivante, il decorso post-operatorio era inizialmente buono, ma in data 25/07/13 compariva una febbricola che perdurava nei giorni seguenti, con emocolutura positiva per pseudomonas aeruginosa ed apparentemente responsiva ad un trattamento antibiotico con ciproxin avviato in data 29/07/13. Nel frattempo venivano eseguiti vari controlli (fra cui TAC/PET in data 09/08/13 ed ecocardiogramma in data 19/08/13) e in data 10/08/13 risulta un trasferimento interno in ambito riabilitativo mentre in data 21/08/13 un altro trasferimento interno in ambito cardiologico, dove dal 22/08/13 ricompariva la febbre a carattere intermittente. Gli indici di flogosi venivano ripetutamente controllati con riscontro di un loro incremento ed elevazione e in data 24/08/13 perveniva il risultato di una emocoltura positiva per staphylococcus epidermidis, sul cui antibiogramma veniva adeguata la terapia antibiotica. A seguito di controlli ecocardiografici veniva ribadito il substrato endocarditico a livello della valvola trapiantata del processo setticemico con ipertermia e veniva privilegiata una strategia attendista con antibioticoterapia, finché in data 06/09/13 il paziente veniva sottoposto ad un nuovo intervento cardiochirurgico per la rimozione della protesi valvolare infetta. Seguivano esami colturali vari con antibiogrammi (sui fili di sutura della valvola cardiaca rimossa e sul broncoaspirato) e con modificazioni della terapia antibiotica, ma le condizioni del Sig. (…) rimanevano sempre critiche e al processo setticemico si sovrapponeva una instabilità emodinamica finché in data 18/09/13 si perveniva purtroppo al decesso.

Il CTU ha individuato la causa della morte in una endocardite infettiva nosocomiale con setticemia insorta dopo l’intervento cardiochirurgico del 19/07/2013, determinata da un duplice agente etiologico (inizialmente da pesudomonas aeruginosa e poi da staphilococcus epidermidis) e con conseguenziale insufficienza multi – organo.

Il CTU ha poi evidenziato che:

– l’intervento di sostituzione valvolare aortica effettuato il 19/07/2013 era indicato in quanto al Sig. B. nella primavera del 2013 era stata diagnostica una stenosi aortica di grado severo, ossia una patologia progressiva che se non trattata chirurgicamente ha un tasso di sopravvivenza del 50% a due anni e del 20% a cinque anni;

– il “consenso informato”, relativo all’intervento del 19/07/13, come appare di tutta evidenza per la sua assoluta incompletezza, non rispecchia assolutamente la acclarata necessità di doverose informazioni e di reale acquisizione del consenso vero e proprio; ben diverso è il “consenso informato” in data 05/09/13, riportato a pag. 10 e relativo all’intervento del 06/09/13 di sostituzione valvolare aortica per cercare di debellare chirurgicamente l’endocardite infettiva;

– l’endocardite batterica di cui è risultato affetto il Sig. B. è da considerarsi di natura nosocomiale in quanto non presente al momento del ricovero e sostenuta in sequenza da due microrganismi (prima pseudomonas aeruginosa, poi staphylococcus epidermidis) resistenti ad alcuni antibiotici, proprio come avviene per microrganismi presenti negli ambienti ospedalieri. La prima infezione è stata ricondotta tramite emocoltura allo pseudomonas aeruginosa, un batterio che frequentemente determina infezioni in ambito ospedaliero tanto che viene considerato la seconda causa più frequente di infezione nei reparti di terapia intensiva; inoltre, fra i microrganismi più frequentemente in causa nelle endocarditi infettive vengono certamente annoverati lo stafilococco, batterio responsabile della successiva infezione nel caso in oggetto. In ragione di tali riscontri microbiologici, il CTU ha affermato che l’origine nosocomiale dell’endocardite batterica può essere stata determinata con alta probabilità dallo scarso rispetto delle manovre di asepsi o in subordine da inappropriate manovre chirurgiche;

– la terapia farmacologica, dopo l’intervento di sostituzione valvolare aortica del 19/07/13, con l’utilizzo dal 29/07/13 di ciprofloxacina e meropenem e poi della sola ciprofloxacina appare adeguato in relazione alla risposta clinica con defervescenza emiglioramento degli indici di flogosi;

– i sanitari hanno sottovalutavano il reperto alla TAC/PET del 09/08/13 di “iperaccumulo a carico del Vsn in regione sottovalvolare e a carico della parete toracica ds…” che, in alternativa ad una aspetto riconducibile alle recenti manovre chirurgiche (così come sembra sia stato interpretato), doveva indurre il sospetto di una possibile espressione endocarditica e quindi suggerire una ravvicinata verifica tramite un ecocardiogramma, che invece è stato eseguito solo dopo 9 giorni. In sostanza, però, la diagnosi di endocardite veniva avanzata solo dopo ulteriori 15 giorni, e cioè con ritardo diagnostico in data 24/08/13, quando, oltre all’esame ecocardiografico del 19/08/13 che confermava le vegetazioni di tipo endocardiitico a livello della protesi valvolare (“un’immagine tondeggiante , peduncolata di 0,56 x 0,8 cm originante dalla base della cuspide protesica aortica in CS””), ed oltre alla ricomparsa della iperpiressia (dal 21/08/13) ed al riscontro dell’elevazione degli indici di flogosi (dal 16/08/13), giungeva l’antibiogramma sulla emocoltura del 21/08/13 positivo per staphylococcus epidermidis. Tuttavia, neppure in data 24/08/13, nonostante criteri già da diversi giorni di inoppugnabile rilevanza verso una complicanza endocarditica, i sanitari ricorrevano ad una reale consulenza infettivologica come invece doveroso in un tale contesto clinico: risulta infatti che lo specialista infettivologico veniva solo “contattato telefonicamente” e con il quale veniva “concordato”, in maniera incongruente e senza un ragionamento epicritico, una terapia antibiotica con ben due farmaci (rifampicina e gentamicina) verso i quali l’antibiogramma dimostrava resistenza e senza comprendere invece farmaci notoriamente più efficaci e con antibiogramma favorevole quali la daptomicina;

– risultano carenze in merito al timing del successivo intervento chirurgico di sostituzione valvolare protesica Infatti, nonostante il controllo ecocardiografico del 27/08/13 avesse chiaramente evidenziato delle formazioni periprotesiche compatibili con una franca evoluzione del processo endocarditico (cavità ascessuali e neoformazioni vegetative), peraltro in un contesto clinico ingravescente ed ormai non più affrontabile in direzione conservativa, cioè con l’antibioticoterapia, si indugiava probabilmente troppo con una strategia attendista. Pertanto, l’intervento di sostituzione valvolare protesica del 06/09/13 è avvenuto tardivamente affinché vi potesse essere una qualche concreta possibilità di successo in un ambito clinico comunque prognosticamente difficile come quello delle endocarditi che sono associate ad una elevata mortalità ospedaliera (10-26%); le successive infezioni, documentate con isolamento di batteri sui broncoaspirati (E. Coli il 09/09/13 e Proteus il 14/09/13) sono verosimilmente l’espressione di un quadro infettivo terminale con setticemia fino alla MOF, ma di cui la causa iniziale è da ricondurre all’endocardite da staphylococcus epidermidis sulla valvola protesica.

Il CTU, le cui conclusioni sono condivisibili in quanto adeguatamente motivate, ha quindi ritenuto, sulla base delle considerazioni esposte, che (…) abbia contratto un’infezione nosocomiale, che via sia stato un ritardo colpevole nella formulazione della diagnosi di endocardite batterica e che l’intervento di sostituzione valvolare protesica sia avvenuto tardivamente.

A seguito dell’arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (cfr. 11.01.2008, n. 577), la giurisprudenza ha sempre ritenuto che l’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario – ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, in base al quale la stessa è tenuta a una prestazione complessa, che non si esaurisce nell’effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche, ma si estende a una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché di quelle latu sensu alberghiere.

La responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente, di conseguenza, ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 cod. civ., all’inadempimento della prestazione medico – professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato; anche in tale caso, infatti, sussiste un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto (cfr. Cassazione civile, sez. III, 30/09/2015, n. 19541; Tribunale Milano, sez. I, 02/12/2014, n. 14320).

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito – con orientamento oramai consolidato – come debba essere ripartito l’onere probatorio tra le parti: incombe infatti, in ossequio al principio di vicinanza della prova, sul danneggiato l’onere di prova del titolo dell’obbligazione, nonché l’allegazione dell’inadempimento delle stesse, ovvero dell’inesattezza dell’adempimento dovuta a negligenza o imperizia, e il danno che ne sia derivato, mentre grava sulle strutture provare il proprio esatto adempimento e dunque la mancanza di colpa nell’esercizio della prestazione (ex pluribus Cass. civ., n. 11488/2004).

In particolare il paziente deve provare l’esistenza del contatto e allegare l’inadempimento consistente nell’insorgenza della situazione patologica lamentata per l’effetto dell’intervento, ovvero l’infezione ed il decesso; mentre resta a carico del presidio sanitario la prova della diligenza della prestazione e che l’esito letale sia stato determinato da un evento imprevisto ed imprevedibile, non evitabile anche avendo osservato le regole tecniche e precauzionali del caso ovvero da concause preesistenti o sopravvenute idonee ex se alla determinazione dell’evento, tali da elidere ogni contributo causale dell’operato medico nell’evento occorso (Cass. civ., n. 10297/2004).

Orbene nel caso in esame gli attori hanno dimostrato per tabulas il titolo da cui emerge l’obbligazione della struttura sanitaria ovvero il ricovero di (…) presso la struttura convenuta a partire dal 18 luglio 2013; in via ulteriore è stato dimostrato che durante il ricovero il paziente ha contratto un’endocardite infettiva nosocomiale con setticemia determinata da un duplice agente etiologico (inizialmente da pesudomonas aeruginosa e poi sa staphilococcus epidermidis).

A fronte di ciò, il nosocomio avrebbe dovuto fornire la prova, rigorosa, di aver posto in essere tutto il possibile per evitare l’insorgenza dell’infezione stessa in quanto solo se avesse soddisfatto tale onere, si sarebbe potuto valutare l’eventuale rilevanza, in suo favore, del rappresentare, l’infezione in questione, una complicanza di intervento. In altri termini, l’ospedale avrebbe dovuto dimostrare, attraverso la prova “positiva” di aver fatto tutto quanto la scienza del settore ha, allo stato, escogitato, per evitare, o quanto meno ridurre, il rischio di contaminazione, che l’evento dannoso, cioè il contagio da batterio nosocomiale, era possibile e prevedibile, bensì non prevenibile, rientrando in quell’area di casi che la scienza medica ha enucleato quali eventi che possono sfuggire ai controlli di sicurezza apprestati dalle strutture sanitarie.

In realtà, la convenuta non ha assolto all’onere probatorio che le incombeva non avendo provato di avere posto in essere ogni cautela e precauzione, funzionale, strutturale e di metodo, al fine di realizzare e mantenere costante un’ottimale sanificazione della struttura, dei locali, degli ambienti, dei mezzi e del personale addetto in quanto ha prodotto unicamente un documento interno della casa di cura di procedure operative riguardante la “Bonifica dei dispositivi medici”, la “Pulizia degli ambienti” e la “Prevenzione e cura delle infezioni del sito chirurgico”, con riferimenti anche alle Linee Guida americane, e altro documento che riporta i cicli di sterilizzazione avvenuti su alcuni strumenti in data 18 luglio 2013, ossia il giorno prima del primo intervento (cfr. allegati n. 4 alla memoria ex art. 186 c.p.c. depositata in data 20.06.2016 e n. 3 alla comparsa di costituzione e risposta).

In primo luogo, tale documentazione, in mancanza di un report di effettivo adeguamento alle procedure indicate e di controllo della loro applicazione, ha un valore solo teorico essendo rappresentato da un protocollo astratto, nel senso di programmatico, e quindi deve ritenersi che sia mancata la prova di quali siano state, in concreto, le condotte poste in essere dalla convenuta per un’efficace e consapevole opera di sanificazione (che implica, da parte del management ospedaliero a ciò deputato, ad esempio del Comitato per le I. O., l’adozione di tutta una serie di attenzioni e misure organizzative, effettive e non meramente burocratiche). In secondo luogo, è riduttiva in quanto la convenuta ha prodotto solo i protocolli di sterilizzazione relativi alla sala operatoria, potendo essere stata diffusa l’infezione in altro momento (rispetto all’intervento chirurgico) e luogo dell’ospedale.

Accertata la responsabilità della convenuta, che non ha fornito la prova liberatoria a cui era tenuta, ed avendo tra l’altro il CTU riscontrato diversi profili di colpa dei sanitari che ebbero in cura (…), quanto al danno, le attrici hanno innanzitutto richiesto il risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio derivante dalla perdita del rapporto parentale, nella misura massima prevista dalle Tabelle del Tribunale di Milano vigenti al momento dell’instaurazione del presente giudizio e quindi Euro 327.990,00 per ciascuna di loro.

Il danno parentale per la morte di un prossimo congiunto consiste nella privazione di un valore non economico ma personale costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo la varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare.

Eloquente, al riguardo, appare una nota sentenza della Cassazione (09/05/2011 n. 10107) la quale afferma testualmente che il danno da perdita del rapporto parentale è rappresentato “dal vuoto costituito dal non poter più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nella irreversibile distruzione di un sistema di vita basato sulla affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti fra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nella alterazione che una scomparsa del genere irreversibilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti”.

Il danno parentale si colloca nell’area dell’art. 2059 c.c. e riguarda, in definitiva, la lesione di due beni della vita: 1) il bene della integrità familiare, riferito alla vita quotidiana della vittima con i suoi familiari, che trova il suo supporto costituzionale negli artt. 2, 3, 29, 301, 31, 36; b) il bene della solidarietà familiare riferito tanto alla vita matrimoniale quanto al rapporto parentale tra i componenti della famiglia.

I criteri che rilevano nella determinazione del quantum possono essere così riassunti:

1) il rapporto di parentela esistente tra la vittima ed il congiunto avente diritto al risarcimento, dovendosi presumere che, secondo l’id quod plaerunque accidit, il danno è tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto;

2) l’età del congiunto: il danno è tanto maggiore quanto minore è l’età del congiunto superstite; tale danno infatti è destinato a protrarsi per un tempo maggiore, soprattutto quando si tratta di minori di età, la cui perdita di un familiare può pregiudicare il loro sviluppo psicofisico;

3) l’età della vittima: anche in questo caso è ragionevole ritenere che il danno sia inversamente proporzionale all’età della vittima, in considerazione del progressivo avvicinarsi al naturale termine del ciclo della vita;

4) la convivenza tra la vittima ed il congiunto superstite, dovendosi presumere che il danno sarà tanto maggiore quanto più costante e assidua è stata la frequentazione tra la vittima ed il superstite.

5) la presenza all’interno del nucleo familiare di altri conviventi o di altri familiari non conviventi in quanto il danno derivante dalla perdita è sicuramente maggiore se il congiunto superstite rimane solo, privo di quell’assistenza morale e materiale che gli derivano dal convivere con un’altra persona o dalla presenza di altri familiari, anche se non conviventi.

Ciò premesso, tenuto conto dell’età del defunto al momento dell’intervento pari a 78 anni, dell’eguale età della moglie, dell’età delle figlie E., A. ed A., rispettivamente di anni 44 la prima e 41 le altre due, nonché del fatto che quest’ultime non convivessero con il padre, appare equo riconoscere alla moglie la somma di Euro 165.960,00, pari al minimo previsto dalle Tabelle del Tribunale di Milano pubblicate il 14.03.2018 e, a ciascuna delle figlie, la somma di Euro 200.000,00 (nella forbice da Euro 165.960,00 a Euro 331.920,00).

In secondo luogo, le attrici hanno chiesto il riconoscimento del danno biologico sofferto dal padre per i due mesi di sopravvivenza (il ricovero è avvenuto il 18 luglio 2013, l’intervento il giorno successivo ed il decesso il 18 settembre 2013), trasmissibile agli eredi.

Il danno che la giurisprudenza di legittimità riconosce risarcibile per il periodo di tempo intercorso tra il sinistro e il decesso deve ritenersi sussistente nel caso in esame in quanto nei predetti due mesi (…) è rimasto cosciente ed ha dunque ragionevolmente avuto consapevolezza della gravità delle proprie lesioni, essendo anche stato sottoposto ad ulteriore intervento chirurgico, e del progressivo peggioramento delle proprie condizioni di salute fino a giungere alla morte.

Secondo la Suprema Corte (v. Cass. n. 18163/2007 e Cass. n. 1877/2006) il danno terminale sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto che la lesione alla salute è così elevata da non essere suscettibile di recupero ed è tale da sfociare nella morte. La stessa Corte ha evidenziato la necessità di tener conto di fattori di personalizzazione, escludendo pertanto che la liquidazione possa essere effettuata attraverso la meccanica applicazione di criteri contenuti in tabelle che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso e non piuttosto in via equitativa tenendo conto delle circostanze del caso concreto.

Tenendo conto dell’insegnamento delle Sezioni Unite (sentenze gemelle Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972-3-4-5 e n. 15350/2015) nella nozione di “danno terminale” deve essere ricompreso ogni aspetto biologico e sofferenziale connesso alla percezione della morte imminente.

Nel caso in esame, risulta che a partire dal 4 settembre 2013 vi sia stato un effettivo peggioramento delle condizioni del paziente, come emerge dal diario clinico dove viene evidenziato un “quadro nettamente scaduto…”, il quale poi in data 6 settembre 2013 veniva sottoposto ad un ulteriore intervento chirurgico, che, tuttavia, non era in grado di scongiurare l’evento morte. Alla luce di tali considerazioni si deve ritenere che, a partire da tale momento e fino al decesso del 18 settembre 2013, (…) sia stato consapevole dell’evolversi in senso peggiorativo delle proprie condizioni di salute temendo la morte e quindi si ritiene equo riconoscere, per ciascuno dei 14 giorni che lo hanno separato dal decesso, la somma di Euro 1.440,00, pervenendo così all’importo complessivo di Euro 20.160,00, già calcolato all’attualità, da suddividersi in parti uguali unicamente tra le tre figlie (per Euro 6.720,00), avendo la moglie dichiarato di avere rinunciato all’eredità.

Infine, alla sola (…) deve essere riconosciuto il risarcimento del danno patrimoniale dovuto al fatto che appare verosimile, stante il dovere di ciascun coniuge di contribuire al manage familiare, che il marito, che percepiva un reddito pari ad Euro 26.662,00 all’anno, destinasse 1/3 dello stesso al soddisfacimento dei vari bisogni della famiglia composta da lui e la moglie, per un importo complessivo, tenuto conto che la prospettiva media di vita di un soggetto maschile è pari a 80 anni, di Euro 17.774,66 (cfr. allegato n. 15 al fascicolo di parte attrice). Alla stessa inoltre devono essere rimborsate le spese funerarie, documentate per Euro 3.334,04 (cfr. allegati n. 17, 18, 19 e 20 al fascicolo di parte attrice).

In sintesi, quindi, a ciascuna delle figlie spetta al somma di Euro 200.000,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio ed Euro 6.720,00 quale risarcimento del danno patrimoniale iure ereditario conseguenti alla morte del padre (…), mentre alla moglie (…) deve essere riconosciuta la somma di Euro 165.960,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale iure proprio e la somma di Euro 21.108,70 (Euro17.774,66 + Euro 3.334,04) a titolo di risarcimento del danno patrimoniale subito.

Le somme dovute quale risarcimento del pregiudizio non patrimoniale, già calcolate al valore attuale della moneta in applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano pubblicate il 14.03.2018, così come le somme riconosciute alle figlie iure ereditario, devono essere maggiorate unicamente degli interessi legali, da calcolarsi sulle somme riconosciute, devalutate all’epoca del fatto (18.09.2013) e rivalutate di anno in anno fino alla data di pubblicazione della presente sentenza. Sulla somme così ottenute dovranno poi essere calcolati gli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo saldo.

La somma di Euro 21.108,70 riconosciuta alla moglie deve invece essere maggiorata sia della rivalutazione monetaria che degli interessi legali, quest’ultimi calcolarsi sulla somma devalutata all’epoca del fatto (18.09.2013) e rivalutata di anno in anno, entrambi fino alla data di pubblicazione della presente sentenza. Sulla somme così ottenute dovranno poi essere calcolati gli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino all’effettivo saldo.

Nulla spetta agli attori con riguardo alla mancanza di un vero e proprio consenso informato, come argomentato dal CTU, non avendo gli stesi nulla dedotto in merito.

Le spese di lite, liquidate nella parte dispositiva, seguono la soccombenza e devono distrarsi a favore del difensore, che si è dichiarato antistatario, cui devono aggiungersi Euro 1.464,00 quale compenso del CTP dott. Sa., come da fattura prodotta unitamente al foglio di precisazione delle conclusioni.

Le spese della CTU, nella misura già liquidata in corso di causa, devo porsi definitivamente a carico della convenuta in quanto soccombente.

P.Q.M.

Il Tribunale di Ravenna, definitivamente pronunciando nella causa distinta al n. 4841/2015, promossa da (…), (…), (…) e (…) nei confronti di (…) s.p.a., ogni ulteriore domanda ed eccezione disattesa:

– dichiara tenuta e, per l’effetto, condanna (…) S.p.A. al pagamento in favore di (…) della somma di Euro 165.960,00 a titolo di risarcimento del pregiudizio non patrimoniale e della somma di Euro 21.108,70 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale subito in conseguenza della morte di (…), oltre rivalutazione monetaria ed interessi come indicati in parte motiva;

– dichiara tenuta e, per l’effetto, condanna (…) S.p.A. al pagamento in favore di ciascuna delle attrici (…), (…) e (…) della somma di Euro 200.00,00 a titolo di risarcimento del pregiudizio non patrimoniale e della somma di Euro 6.720,00 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale subito in conseguenza della morte di (…), oltre rivalutazione monetaria ed interessi come indicati in parte motiva;

– condanna (…) s.p.a. al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 1.730,00 per spese ed Euro 27.803,10 per compenso professionale, oltre 15% per spese generali, IVA e CPA come per legge, da distrarsi in favore dell’avv. St.Be., che si è dichiarato antistatario, oltre ad Euro 1.464,00 quale compenso del CTP dott. Sa.;

– pone le spese della CTU, nella misura già liquidata in corso di causa, definitivamente a carico di (…) S.p.A.

Così deciso in Ravenna il 14 maggio 2018.

Depositata in Cancelleria il 31 maggio 2018.

 

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