delitto di cui all’art. 61 c.p., n. 9, art. 609-bis c.p., comma 2, n. 2, art. 609-septies c.p., n. 3, Violenza propalazioni rese dalla stessa persona offesa, non risulta essere stato oggetto di adeguato vaglio da parte della Corte territoriale

 

delitto di cui all’art. 61 c.p., n. 9, art. 609-bis c.p., comma 2, n. 2, art. 609-septies c.p., n. 3, Violenza propalazioni rese dalla stessa persona offesa, non risulta essere stato oggetto di adeguato vaglio da parte della Corte territoriale

 

ART 648 CP,ART 648 BIS CP , ART 648 TER CP , ART 648 TER 1 CP ,ART 648 QUARTER CP
ART 648 CP,ART 648 BIS CP , ART 648 TER CP , ART 648 TER 1 CP ,ART 648 QUARTER CP

 

Orbene, tale compendio, per lo più originante dalle propalazioni rese dalla stessa persona offesa, non risulta essere stato oggetto di adeguato vaglio da parte della Corte territoriale, che si è limitata a ritenere comprovata la finalità libidinosa sulla scorta di un’argomentazione esclusivamente deduttiva, fondata sul presupposto che, essendo del tutto fuori luogo la svolta ispezione rettale, essa non potesse avere avuto altro fine se non quello di soddisfare la concupiscenza sessuale dell’imputato. Trattasi, tuttavia, di conclusione assertiva e non fondata su adeguati riscontri obiettivi, che non tiene conto del fatto che, in termini opposti, per quanto evincibile dalla narrazione della persona offesa, tale ultima non avesse percepito alcuna violazione della propria sfera sessuale durante l’espletamento della visita rettale, nè avesse avvertito il perseguimento di una finalità libidinosa da parte dell’infermiere.

 

  • È, in particolar modo, carente la motivazione della sentenza impugnata per non aver considerato più aspetti caratterizzanti l’iter comportamentale seguito dal S. che ben potrebbero essere stati ispirati dal conseguimento di una diversa finalità di natura diagnostica e terapeutica, come ad esempio le circostanze per cui l’imputato: dopo avere effettuato il controllo al costato, aveva chiesto alla S.V. se soffrisse di altre problematiche; appreso dalla presenza di emorroidi, aveva implicitamente ripreso la donna affermando che ne avrebbe dovuto parlare con il suo medico curante; aveva fatto numerose domande in ordine alla natura di tali emorroidi e delle perdite di sangue che ne erano conseguite; aveva osservato come una delle cause di tale disturbo potesse essere costituito dall’abuso di assunzione di caffè; una volta eseguita la visita rettale, aveva raccomandato alla donna di cambiare alimentazione e di utilizzare una pomata specifica.
  • Orbene, tale compendio, per lo più originante dalle propalazioni rese dalla stessa persona offesa, non risulta essere stato oggetto di adeguato vaglio da parte della Corte territoriale, che si è limitata a ritenere comprovata la finalità libidinosa sulla scorta di un’argomentazione esclusivamente deduttiva, fondata sul presupposto che, essendo del tutto fuori luogo la svolta ispezione rettale, essa non potesse avere avuto altro fine se non quello di soddisfare la concupiscenza sessuale dell’imputato. Trattasi, tuttavia, di conclusione assertiva e non fondata su adeguati riscontri obiettivi, che non tiene conto del fatto che, in termini opposti, per quanto evincibile dalla narrazione della persona offesa, tale ultima non avesse percepito alcuna violazione della propria sfera sessuale durante l’espletamento della visita rettale, nè avesse avvertito il perseguimento di una finalità libidinosa da parte dell’infermiere.
  • Ne consegue, pertanto, in accoglimento del quinto motivo di ricorso dedotto dal ricorrente, l’annullamento della sentenza impugnata, rimettendo al giudice del rinvio il compito di verificare, alla stregua del compiuto esame di tutte le risultanze probatorie, se possa, o meno, essere ravvisata nella condotta riferibile all’imputato la ricorrenza della finalità sessuale, necessaria ai fini dell’integrazione della condotta delittuosa ascrittagli.

 

 

Corte di Cassazione

sez IV penale, sentenza n. 41845

  1. 13 giugno 2023 (dep. 16 ottobre 2023) 

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza del 25 ottobre 2022 la Corte di appello di Palermo, in sede di rinvio a seguito di pronuncia della Corte di Cassazione del 3 novembre 2021, in parziale riforma della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Termini Imerese del 7 luglio 2017, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di S.G. in relazione ai reati di cui all’art. 61 c.p., nn. 2 e 9, e art. 348 c.p. (capo B) e all’art. 61 c.p., n. 2 e art. 479 c.p. (capo C) perché estinti per prescrizione, per l’effetto rideterminando la pena inflitta nei suoi confronti, in ordine al residuo delitto di cui all’art. 61 c.p., n. 9, art. 609-bis c.p., comma 2, n. 2, art. 609-septies c.p., n. 3, (capo A), nella misura di anni tre e mesi quattro di reclusione.

1.1. Il S. è stato, in particolare, riconosciuto colpevole di avere, nella sua qualità di infermiere addetto al triage presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale (omissis), indotto la paziente S.V.S. a subire atti sessuali, traendola in inganno circa le proprie prerogative professionali, in particolar modo attribuendosi indebitamente la qualifica che gli avrebbe consentito di eseguire un’esplorazione rettale sul corpo della paziente, omettendo di attestare nel verbale del Pronto Soccorso di averla sottoposto a tale visita. Con l’aggravante del fatto commesso con violazione dei doveri inerenti ad un pubblico servizio, nonché del fatto commesso da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni.

1.2. L’imputato era stato inizialmente condannato, in esito a giudizio abbreviato, dal G.U.P. del Tribunale di Termini Imerese, con sentenza del 7 luglio 2017, alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione, in quanto ritenuto responsabile di tutte e tre le imputazioni ascrittegli, unificate dal vincolo della continuazione.

Con sentenza del 27 febbraio 2020 la Corte di appello di Palermo, in riforma della pronuncia di primo grado, aveva assolto S.G. dai reati ascrittigli, per insussistenza dei fatti.

Tale pronuncia era stata, quindi, annullata dalla Terza Sezione di questa Suprema Corte, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo, con sentenza del 3 novembre 2021, ritenendo che la Corte territoriale non avesse offerto una motivazione puntuale e adeguata in ordine alle ragioni per le quali aveva assunto la pronuncia assolutoria, in difformità rispetto a quanto preventivamente deciso dal giudice di primo grado.

Nel conseguente giudizio di rinvio, la Corte di appello di Palermo è pervenuta in data 25 ottobre 2022 a una nuova pronuncia di condanna dell’imputato, sia pur solo per l’ipotesi criminosa contestatagli al capo A.

  1. Avverso tale ultima sentenza ha proposto ricorso per cassazione G.S., a mezzo del suo difensore, deducendo sei motivi di doglianza, con il primo dei quali ha eccepito violazione di legge per inosservanza dell’art. 627 c.p.p. relativamente alle statuizioni rese nella sentenza di annullamento con rinvio dalla Corte di Cassazione.

A dire del ricorrente, in tale ultima pronuncia la Suprema Corte avrebbe disposto l’effettuazione da parte del giudice del rinvio del nuovo esame della persona offesa in ordine alla verifica del tempo di durata dell’esplorazione rettale, ovvero l’individuazione degli specifici passaggi dichiarativi da cui potesse evincersi che il dato di cinque minuti indicato dalla S.V. fosse riferito a qualcosa di diverso dalla suddetta visita.

A tali adempimenti non avrebbe adempiuto la Corte territoriale, così, di fatto, violando il disposto dell’art. 627 c.p.p., comma 3, che impone al giudice del rinvio l’obbligo di uniformarsi alle decisioni assunte sulle questioni di diritto da parte della Corte di Cassazione.

Con la seconda censura l’imputato ha eccepito contraddittorietà e illogicità della motivazione in relazione a una prova decisiva assunta nel giudizio abbreviato.

La Corte di appello avrebbe effettuato, nella sentenza impugnata, una nuova ricostruzione dei fatti avvenuti presso il Pronto Soccorso di […], tuttavia fornendone una ricostruzione in contrasto con le acquisite emergenze probatorie. Avrebbe, in particolare, errato la Corte di merito nel dilatare il tempo di durata del triage, ritenendolo di ben oltre i sette minuti complessivi precedentemente accertati, in carenza di conforto di adeguati riscontri obiettivi.

Sarebbe, poi, illogico che la versione dei fatti resa solo dopo pochi mesi dalla persona offesa, nell’ambito di una dettagliata mail indirizzata alla direzione sanitaria dell’Ospedale, potesse essere meno puntuale delle dichiarazioni da costei poi effettuate agli inquirenti, sia nel corso delle indagini preliminari che in dibattimento, a distanza di molto tempo dai fatti.

Con la terza doglianza il S. ha lamentato contraddittorietà della motivazione in relazione agli elementi di prova presenti in atti, da cui poter evincere l’inattendibilità della parte civile, in relazione ai parametri di cui all’art. 192 c.p.p., comma 1.

A dire del ricorrente, È, in particolar modo, carente la motivazione della sentenza impugnata per non aver considerato più aspetti caratterizzanti l’iter comportamentale seguito dal S. che ben potrebbero essere stati ispirati dal conseguimento di una diversa finalità di natura diagnostica e terapeutica, come ad esempio le circostanze per cui l’imputato: dopo avere effettuato il controllo al costato, aveva chiesto alla S.V. se soffrisse di altre problematiche; appreso dalla presenza di emorroidi, aveva implicitamente ripreso la donna affermando che ne avrebbe dovuto parlare con il suo medico curante; aveva fatto numerose domande in ordine alla natura di tali emorroidi e delle perdite di sangue che ne erano conseguite; aveva osservato come una delle cause di tale disturbo potesse essere costituito dall’abuso di assunzione di caffè; una volta eseguita la visita rettale, aveva raccomandato alla donna di cambiare alimentazione e di utilizzare una pomata specifica.

Orbene, tale compendio, per lo più originante dalle propalazioni rese dalla stessa persona offesa, non risulta essere stato oggetto di adeguato vaglio da parte della Corte territoriale, che si è limitata a ritenere comprovata la finalità libidinosa sulla scorta di un’argomentazione esclusivamente deduttiva, fondata sul presupposto che, essendo del tutto fuori luogo la svolta ispezione rettale, essa non potesse avere avuto altro fine se non quello di soddisfare la concupiscenza sessuale dell’imputato. Trattasi, tuttavia, di conclusione assertiva e non fondata su adeguati riscontri obiettivi, che non tiene conto del fatto che, in termini opposti, per quanto evincibile dalla narrazione della persona offesa, tale ultima non avesse percepito alcuna violazione della propria sfera sessuale durante l’espletamento della visita rettale, nè avesse avvertito il perseguimento di una finalità libidinosa da parte dell’infermiere.

Ne consegue, pertanto, in accoglimento del quinto motivo di ricorso dedotto dal ricorrente, l’annullamento della sentenza impugnata, rimettendo al giudice del rinvio il compito di verificare, alla stregua del compiuto esame di tutte le risultanze probatorie, se possa, o meno, essere ravvisata nella condotta riferibile all’imputato la ricorrenza della finalità sessuale, necessaria ai fini dell’integrazione della condotta delittuosa ascrittagli.

La S.V. sarebbe, in particolare, non credibile per aver riferito che: il capo dei triagisti M.V. aveva subito individuato la persona del S. quale autore dei fatti, anche riferendo di precedenti disciplinari a suo carico, trattandosi, invece, di aspetti del tutto non confermati dal M. durante lo svolgimento del suo esame testimoniale; aveva chiesto a varie dottoresse se gli infermieri del triage potessero effettuare visite, senza che costoro avessero mai confermato l’indicato aspetto, anzi addirittura ricordando una teste come tale domanda le fosse stata rivolta solo da parte di un uomo; il riferito svolgimento della visita rettale in una stanza chiusa del triage non era compatibile con il fatto che una delle due porte della sala non potesse essere chiusa, stante il malfunzionamento della serratura.

Con il quarto motivo il S. ha dedotto inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 609-bis c.p., comma 2, n. 2.

Sarebbe, a suo dire, insussistente il requisito dell’induzione in inganno della vittima, non essendosi mai fraudolentemente attribuito la qualifica di medico, che gli avrebbe consentito l’effettuazione dell’esplorazione rettale sul corpo della S.V. Non si sarebbe, cioè, mai sostituito ad un’altra persona, essendovi plurimi riscontri in atti, anche riferentisi a dichiarazioni rese da parte della persona offesa, da cui si evincerebbe come il S. avesse sempre chiaramente fatto intendere di avere unicamente la qualifica di infermiere addetto al triage.

Con la quinta censura è stata eccepita inosservanza ed erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà della motivazione in relazione all’art. 609-bis c.p.

Sarebbe, in particolare, insussistente la finalità sessuale dell’atto attribuito all’imputato, costituente un elemento integrativo del fatto di violenza sessuale a lui ascritto.

Dalle emergenze processuali, ed in carenza di adeguata motivazione espressa sul punto dalla Corte di appello, si potrebbe, al più, evincere solo il compimento di un atto medico da parte del S., per nulla caratterizzato dalla presenza di una finalità sessuale.

Tutte le condotte ascritte al prevenuto, ivi compresa l’effettuata palpazione al seno della S.V., sarebbero state eseguite per una precisa finalità medico diagnostica, in quanto volte unicamente ad accertare la patologia lamentata dalla paziente, che, peraltro, sin da subito aveva manifestato perplessità circa la possibilità che la visita potesse essere effettuata da un infermiere, senza, tuttavia, mai ravvisare in essa alcun elemento di libidine o di rilievo sessuale.

Con l’ultima doglianza il ricorrente ha lamentato erronea applicazione dell’art. 609-bis c.p., comma 3, oltre a contraddittorietà e illogicità della motivazione, osservando come, nel caso di specie, sarebbero sussistenti i presupposti per il riconoscimento dell’attenuante ad effetto speciale del fatto di minore gravità.

Sul punto la Corte di merito avrebbe espresso una motivazione breve e inadeguata, meramente reiterativa di aspetti già vagliati ai fini della generale configurazione della fattispecie delittuosa contestata.

  1. Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
  2. Il difensore ha depositato successiva memoria di replica, con cui ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è fondato limitatamente alla quinta doglianza dedotta, per l’effetto determinando l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
  2. In primo luogo priva di fondamento è l’introduttiva censura, con cui il ricorrente ha lamentato che la Corte di appello, decidendo in sede di rinvio, non si sarebbe uniformata alle statuizioni rese dalla Terza Sezione di questa Corte, per la quale si sarebbe dovuto effettuare un nuovo esame della persona offesa in ordine alla verifica del tempo di durata dell’esplorazione rettale, ovvero individuare gli specifici passaggi dichiarativi da cui si potesse evincere che il dato dei cinque minuti di durata della visita anale indicato dalla S.V. alla P.G. fosse riferito a qualcosa di diverso dalla suddetta visita.

Orbene, il Collegio ritiene che, diversamente da quanto prospettato dal ricorrente, tali indicazioni siano state adeguatamente rispettate da parte del giudice del rinvio, che ha, di fatto, adempiuto alle direttive espresse dalla pronuncia rescindente evidenziando come dall’esame delle emergenze probatorie in atti potesse evincersi che la persona offesa aveva reso nel verbale di s.i.t. del 10 febbraio 2015 e nell’udienza del 10 gennaio 2017 delle dichiarazioni niente affatto caratterizzate da aporie insanabili in ordine alla durata della svolta ispezione anale, avendone individuato il tempo di effettuazione in “circa cinque minuti”, con indicazione che, tuttavia, per come ragionevolmente esplicato dalla Corte territoriale, deve necessariamente essere ritenuta “sommaria, generica e per forza di cose non precisa (laddove l’imbarazzo provato e la sofferenza complessiva che l’aveva condotta al pronto soccorso ha magari “dilatato” la percezione del tempo e fatto ritenere di cinque minuti un lasso temporale inferiore)”.

Trattasi di valutazione adeguata, ragionevole e logica, che si uniforma alle statuizioni rese dalla sentenza rescindente e che, all’evidenza, rende superflua ogni ulteriore eventuale escussione della persona offesa.

  1. Manifestamente infondata, in quanto volta ad ottenere solo una rivalutazione fattuale dei tempi di svolgimento della vicenda delittuosa, nonché dell’esatta dinamica di relativa sua realizzazione, è, poi, la doglianza con cui il S. ha lamentato illogicità motivazionale, per avere la Corte di appello effettuato una ricostruzione dei fatti contrastante con le acquisite emergenze probatorie, in particolar modo per ciò che attiene al tempo di durata del triage, erroneamente fondato dai giudici del rinvio sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa solo molto tempo dopo la redazione di una mail invece inviata nell’immediatezza dei fatti alla struttura sanitaria, in cui la stessa S.V. aveva diversamente ricostruito la vicenda, affermando che l’apertura della schermata del triage era stata effettuata dall’imputato prima dell’espletamento della visita al suo costato.

Orbene, risulta di tutta evidenza come l’eccepita censura finisca, nella sostanza, per prospettare una non consentita lettura alternativa dei fatti accertati in sede di merito, rispetto alla quale questo Collegio non può non ribadire come al giudice di legittimità siano precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., fra i molteplici arresti in tal senso: Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 28060101; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482-01; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507-01). È, conseguentemente, sottratta al sindacato di legittimità la valutazione con cui il giudice di merito esponga, con motivazione logica e congrua, le ragioni del proprio convincimento.

Ebbene, nel caso di specie deve senz’altro ritenersi che la Corte di appello abbia fornito, in sede di rinvio, una chiara rappresentazione degli elementi di fatto considerati nella propria decisione, sulla cui scorta ha ritenuto di ricostruire modalità e tempistica di realizzazione della condotta criminosa dell’imputato, giustificando la disposta pronuncia di condanna.

In maniera adeguata, infatti, la sentenza impugnata ha esplicato, con motivazione non manifestamente illogica ed esente da vizio alcuno, come le dichiarazioni parzialmente difformi rese dalla vittima, nel corso delle sue tre escussioni, in ordine al momento di effettuazione della visita al costato e dell’effettiva apertura della schermata del triage, siano tali da poter trovare giustificazione in argomenti logici e, comunque, tali da non poter inficiare la ritenuta piena attendibilità della persona offesa. Quest’ultima, in particolare, è stata evinta dalla Corte di merito in ragione: della chiarezza e precisione del racconto reso dalla S.V. ; della sofferenza e del travaglio da lei manifestato; della mancanza di astio avuto nei confronti dell’imputato, da lei mai precedentemente incontrato; della credibilità con cui la vittima ha pian piano compreso la gravità della violenza subita, determinandosi a denunciare il S. solo dopo un adeguato tempo di riflessione, perfino frenando la subitanea ira manifestata da parte del proprio consorte.

Trattasi, dunque, di argomentazioni espresse dalla Corte territoriale con motivazione adeguata e convincente, pienamente idonea a giustificare il giudizio di colpevolezza espresso nei riguardi del prevenuto, rispetto alle quali le censure da quest’ultimo dedotte si appalesano solo finalizzate ad ottenere una rivalutazione del materiale probatorio raccolto nelle fasi di merito, il che, avuto riguardo alla coerenza ed alla logicità della motivazione espressa, fa ritenere le stesse del tutto infondate.

  1. Per le stesse ragioni deve, poi, essere espresso identico giudizio di manifesta infondatezza pure con riguardo alla terza censura eccepita dal ricorrente, con cui ha lamentato vizio motivazionale in ordine alla ritenuta attendibilità della persona offesa, a suo dire contraddetta da obiettive emergenze processuali, in particolar modo evincibili dai contenuti di alcune dichiarazioni rese da parte dei testi escussi.

Ribadito che, nel caso di specie, l’indicata doglianza invoca solo una lettura alternativa delle emergenze probatorie acquisite, non consentita in questa sede di legittimità, e che, in ragione delle argomentazioni precedentemente espresse, la S.V. è stata ritenuta pienamente attendibile da parte dei giudici di appello, le eccepite incongruenze probatorie non appaiono, comunque, tali da poter inficiare l’espresso giudizio di attendibilità della vittima, avendo la Corte territoriale reso rispetto ad esse, con argomentazioni congrue e non manifestamente illogiche, delle piane giustificazioni e delle adeguate modalità di interpretazione.

D’altro canto, l’attendibilità della persona offesa dal reato è questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che la motivazione della sentenza impugnata – come non è dato ravvisare nel caso di specie – sia affetta da manifeste contraddizioni, o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo “id quod plerumque accidit”, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (così, Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01).

  1. Pure infondato è il motivo dedotto con la quarta doglianza, con cui il S. ha lamentato l’insussistenza dell’elemento costitutivo del reato rappresentato dall’induzione in inganno della vittima, sul presupposto, di non essersi mai fraudolentemente attribuito la qualifica di medico, nella cui ricorrenza avrebbe effettuato l’esplorazione rettale alla S.V. , ed essendosi, invece, sempre presentato a quest’ultima come infermiere addetto al triage – per come, invero, ammesso essere stato sempre ritenuto da parte della stessa vittima -.

Pur essendo corretto l’aspetto da ultimo indicato, avendo la persona offesa avuto piena contezza del fatto che il S. non fosse un medico – come, ad esempio, comprovato dalla circostanza che la S.V. , subito dopo i fatti, si fosse rivolta a dottoresse del Pronto Soccorso per sapere “se gli infermieri del triage potessero effettuare visite” – deve, tuttavia, essere osservato come la motivazione resa dalla Corte di appello appaia del tutto adeguata e congrua in ordine alla ritenuta ricorrenza, nella condotta imputabile al S. , del requisito dell’induzione in errore della vittima, sul presupposto, adeguatamente evidenziato dai giudici di merito, che il reato di induzione a compiere o subire atti sessuali con l’inganno per essersi il reo sostituito ad altra persona è integrato anche dalla falsa attribuzione di una particolare qualifica professionale, rientrando quest’ultima nella nozione di sostituzione di persona di cui all’art. 609-bis c.p., comma 2, n. 2 (Sez. 3, n. 43164 del 21/06/2017, S., Rv. 271276-01).

Nella specie, in realtà, l’inganno del S. non è stato perpetrato attribuendosi falsamente la qualifica di medico, ma facendo credere alla vittima che tra le proprie competenze professionali di infermiere addetto al triage vi fosse anche quella di poter eseguire visite sui pazienti.

Tale convincimento è stato indotto alla vittima non in virtù di una espressa indicazione verbale, ma per fatti concludenti, e cioè mediante la manifestazione di diversi comportamenti performativi e professionali realizzati dall’imputato, espressivi di un’anamnesi particolarmente attenta e circostanziata, arricchita da giudizi puntuali e consigli pertinenti, tali da far credere alla S.V. – in quello specifico ambito spazio-temporale, nella situazione di malessere da lei vissuto e in conseguenza della sicurezza nel proporsi e nel prendere l’iniziativa manifestata dal S. – che tra le competenze professionali spettanti al prevenuto vi fosse anche quella di poterle praticare una visita, pure particolarmente invasiva e imbarazzante quale è l’ispezione anale.

  1. Tuttavia, proprio le modalità fattuali di svolgimento di tale visita, oltre alle condotte, sia antecedenti che successive, realizzate da parte dell’imputato inducono il Collegio a ritenere che non sia stata adeguatamente comprovata la finalità sessuale della svolta visita rettale, all’evidenza costituente un ulteriore elemento integrativo del reato ex art. 609-bis c.p., comma 2, n. 2 per cui il S. è stato condannato.

I giudici di appello, cioè, non risultano avere adeguatamente vagliato la diversa ipotesi per cui l’imputato, pur avendo con la sua condotta indotto in errore la vittima circa le competenze rientranti nella sua qualifica di infermiere addetto al triage, possa aver realizzato, comunque, un atto medico, senza il soddisfacimento di una propria brama sessuale.

È, in particolar modo, carente la motivazione della sentenza impugnata per non aver considerato più aspetti caratterizzanti l’iter comportamentale seguito dal S. che ben potrebbero essere stati ispirati dal conseguimento di una diversa finalità di natura diagnostica e terapeutica, come ad esempio le circostanze per cui l’imputato: dopo avere effettuato il controllo al costato, aveva chiesto alla S.V. se soffrisse di altre problematiche; appreso dalla presenza di emorroidi, aveva implicitamente ripreso la donna affermando che ne avrebbe dovuto parlare con il suo medico curante; aveva fatto numerose domande in ordine alla natura di tali emorroidi e delle perdite di sangue che ne erano conseguite; aveva osservato come una delle cause di tale disturbo potesse essere costituito dall’abuso di assunzione di caffè; una volta eseguita la visita rettale, aveva raccomandato alla donna di cambiare alimentazione e di utilizzare una pomata specifica.

Orbene, tale compendio, per lo più originante dalle propalazioni rese dalla stessa persona offesa, non risulta essere stato oggetto di adeguato vaglio da parte della Corte territoriale, che si è limitata a ritenere comprovata la finalità libidinosa sulla scorta di un’argomentazione esclusivamente deduttiva, fondata sul presupposto che, essendo del tutto fuori luogo la svolta ispezione rettale, essa non potesse avere avuto altro fine se non quello di soddisfare la concupiscenza sessuale dell’imputato. Trattasi, tuttavia, di conclusione assertiva e non fondata su adeguati riscontri obiettivi, che non tiene conto del fatto che, in termini opposti, per quanto evincibile dalla narrazione della persona offesa, tale ultima non avesse percepito alcuna violazione della propria sfera sessuale durante l’espletamento della visita rettale, nè avesse avvertito il perseguimento di una finalità libidinosa da parte dell’infermiere.

Ne consegue, pertanto, in accoglimento del quinto motivo di ricorso dedotto dal ricorrente, l’annullamento della sentenza impugnata, rimettendo al giudice del rinvio il compito di verificare, alla stregua del compiuto esame di tutte le risultanze probatorie, se possa, o meno, essere ravvisata nella condotta riferibile all’imputato la ricorrenza della finalità sessuale, necessaria ai fini dell’integrazione della condotta delittuosa ascrittagli.

  1. La ritenuta carenza probatoria in ordine alla sussistenza della finalità sessuale rende, all’evidenza, assorbita la doglianza eccepita con l’ultimo motivo di ricorso, avente ad oggetto la richiesta di riconoscimento della circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di minore gravità, di cui all’art. 609-bis c.p., comma 3.
  2. Ne consegue la pronuncia di annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo, cui viene demandata anche la regolamentazione tra le parti delle spese di lite relative a questo giudizio di legittimità.

Deve, altresì, essere disposto l’oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi riportati in sentenza, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo, cui demanda anche la regolamentazione tra le parti delle spese di questo giudizio di legittimità. Oscuramento dati.

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