COMUNIONE E DIVISIONE EREDITARIA RISOLVI

COMUNIONE E DIVISIONE EREDITARIA

RISOLVI ORA AVVOCATO ESPERTO BOLOGNA

Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio, Concorso nel mantenimento     Condotta del genitore pregiudizievole ai figliDei diritti e doveri del figlio
Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio, Concorso nel mantenimento
 
 
Condotta del genitore pregiudizievole ai figli Dei diritti e doveri del figlio

Nel patrimonio ereditario non rientrano e quindi non cadono in successione il trattamento di fine rapporto di lavoro subordinato e le assicurazioni sulla vita.

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Perché questo stato di necessaria immobilità possa aver termine occorre procedere a spartire i diversi beni e ad assegnarli tra i comproprietari. Solo a seguito di questa operazione, ciascuno tra i soggetti precedentemente facenti parte della comunione può dirsi titolare a tutti gli effetti – fino a poterne disporre come meglio ritiene – di alcuni, ben determinati beni. Solitamente questa spartizione e questa assegnazione è condotta in modo da ripartire uniformemente tra tutti non tanto i beni in sé quanto il valore che questi, complessivamente, contribuivano a formare (ma nulla vieta che i criteri distributivi siano i più vari, salva sempre la volontà delle parti sul punto). 

Le indennità di preavviso e di fine rapporto,

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  1. dovute dal datore di lavoro alla morte del dipendente devono essere corrisposte, ai sensi dell’art. 2122 c.c, al coniuge, ai figli e, qualora vivessero a carico del lavoratore, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo.
  2. non cadono in successione Il trattamento di fine rapporto e l’indennità di preavviso maturano per fatto della morte e quindi successivamente a questa. Pertanto le indennità non rientrano nell’asse ereditario e non sono soggette ad imposte di successione.

Occorre premettere che la domanda di divisione si propone quando,

avvocato esperto testamenti e impugnazione
avvocato esperto testamenti e impugnazione

 costituitasi la comunione ereditaria in seguito alla apertura della successione legittima o testamentaria, gli eredi chiedono lo scioglimento e le conseguenti assegnazione delle porzioni o attribuzione dei beni. Poiché anche la divisione comporta la collazione e l’imputazione (art. 724 cod. civ.), carattere precipuo della domanda di divisione è che, con questa, nessun erede deduce di aver subito una lesione della quota di riserva: in altre parole, gli eredi tenuti alla collazione ed alla imputazione non affermano che quanto dal defunto, direttamente o indirettamente, è stato donato abbia ecceduto la disponibile. Il petitum, pertanto, consiste nel conseguimento della quota ereditaria, mentre la causa petendi è data dalla semplice qualità di erede legittimo o testamentario.

L’azione di riduzione, invece, si propone nel caso in cui le disposizioni testamentarie o le donazioni siano eccedenti la quota di cui il defunto poteva disporre e ha come scopo, anzitutto, la determinazione dell’ammontare concreto della quota di legittima: vale a dire, della quota di cui il defunto poteva disporre e di stabilire come ed in quale misura le singole disposizioni testamentarie o le donazioni debbano ridursi per integrare la legittima. Essendo stabilito dalla legge il diritto del legittimario ad una determinata quota, con l’azione di riduzione egli mira a conseguire in concreto tale diritto e cioè ad accertare (costitutivamente), nei confronti della successione che lo riguarda, l’ammontare della quota di riserva e, quindi, della lesione che ad essa hanno apportato le disposizioni del de cuius, nonché le modalità e l’ammontare delle riduzioni di dette disposizioni lesive. Contestualmente, l’attuazione della reintegrazione in concreto implica la proposizione delle istanze di restituzione.

Nell’azione di riduzione, quindi, assumono una fisionomia a sé tanto il petitum, quanto la causa petendi. Il primo consiste nel conseguimento della quota di riserva, previa determinazione di essa mediante il calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle disposizioni testamentarie o delle donazioni compiute in vita dal de cuius; la seconda è data dalla qualità di erede legittimario e dalla asserita lesione della quota di riserva. Nel petitum e nella causa petendi dell’azione di riduzione sono presenti elementi ulteriori e più specifici di quelli costituenti il petitum e la causa petendi della domanda di divisione.

Da questo quadro ricostruttivo, i cui tratti sono costantemente delineati nella giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. 2, 16 novembre 2000, n. 14864; Cass., Sez. 2, 23 gennaio 2007, n. 1408; Cass., Sez. 2, 13 gennaio 2010, n. 368), deriva che è da escludere che il giudicato sullo scioglimento della comunione ereditaria in seguito all’apertura della successione legittima, nella specie limitato al relictum essendo stato il coerede donatario dispensato dalla collazione (cfr. Cass., Sez. 2, 6 marzo 1980, n. 1521), comporti un giudicato implicito sulla insussistenza della lesione della quota di legittima, per effetto della donazione compiuta in vita dal de cuius, in capo a ciascun coerede condividente.

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Il giudicato implicito postula infatti che tra la questione decisa e quella che si vuole tacitamente risolta sussista un rapporto di dipendenza indissolubile, che determini l’assoluta inutilità di decidere la seconda questione; esso, pertanto, non è configurabile nella specie, in considerazione dell’autonomia e della diversità dell’azione di divisione ereditaria rispetto a quella di riduzione e del fatto che il ‘meno’, costituito dalla domanda di divisione, non contiene ‘il più’, rappresentato dalla proposizione della domanda di riduzione.

CAUSE EREDITARIE? DIVISIONI EREDITARIE ? BOLOGNA PADOVA RAVENNA IMOLA FORLI CESENA
CAUSE EREDITARIE? DIVISIONI EREDITARIE ? BOLOGNA PADOVA RAVENNA IMOLA FORLI CESENA

Ne consegue che il coerede, convenuto nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria, può, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divisione, esperire l’azione di riduzione della liberalità compiuta in vita dal de cuius nei confronti di altro coerede dispensato dalla collazione, lamentando l’eccedenza della donazione rispetto alla disponibile e chiedendo la reintegrazione della quota di riserva, con le conseguenti restituzioni.

È bensì vero che, morto il de cuius, il legittimario leso può rinunciare all’azione di riduzione delle disposizioni lesive della sua quota di riserva, ma è necessario, a tal fine, che egli manifesti positivamente la volontà di rinunciare al suo diritto di conseguire l’integrazione spettantegli. Ove manchi una rinuncia espressa in tal senso, si può giungere a ritenere l’esistenza di una rinuncia tacita solo in base ad un comportamento inequivoco e concludente del soggetto interessato, che sia incompatibile con la volontà di far valere il diritto alla reintegrazione. Ma è da escludere che la mancata costituzione nel giudizio di scioglimento della comunione ereditaria promosso da altro coerede esprima l’inequivoca volontà della parte convenuta contumace di rinunciare a far valere, in separato giudizio, il suo diritto alla reintegrazione della quota di eredità riservatale per legge (cfr. Cass., Sez. 2, 7 maggio 1987, n. 4230; Cass., Sez. 2, 21 maggio 2012, n. 8001).

A ciò aggiungasi che il diritto alla reintegrazione della quota, vantato da ciascun legittimario, è autonomo nei confronti dell’analogo diritto degli altri legittimari, non essendo espressione di un’azione collettiva spettante complessivamente al gruppo dei legittimari (Cass., Sez. 2, 11 luglio 1969, n. 2546; Cass., Sez. 2, 13 dicembre 2005, n. 27414; Cass., Sez. 2, 20 dicembre 2011, n. 27770); sicché il giudicato sull’azione di riduzione promossa vittoriosamente da uno di essi – se non può avere l’effetto di operare direttamente la reintegrazione spettante ad altro legittimario che abbia preferito, pur essendo presente nel processo di divisione contemporaneamente promosso, rimanere per questa parte inattivo (Cass., Sez. 2, 28 novembre 1978, n. 5611) – neppure preclude a quest’ultimo di agire separatamente, nell’ordinario termine di prescrizione, con l’azione di reintegrazione della sua quota di riserva.

Questa conclusione è conforme al principio secondo cui, nel caso di pluralità di legittimare, ciascuno ha diritto ad una frazione della quota di riserva e non già all’intera quota, o, comunque, ad una frazione più ampia di quella che gli spetterebbe se tutti gli altri facessero valere il loro diritto e, quindi, ciascun legittimario può ottenere soltanto la parte a lui spettante della quota di riserva e non pure quella di coloro che sono rimasti inattivi o che hanno rinunciato all’azione di riduzione (Cass., Sez. 2, 22 ottobre 1975, n. 3500; Cass., Sez. 2, 28 novembre 1978, n. 5611).

la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario
la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario

L’art. 720 c.c., ammette l’assegnazione dell’intero immobile, non comodamente divisibile, a più coeredi che ne abbiano fatto richiesta congiunta. Va osservato, in proposito, che lo scioglimento della comunione ereditaria non è incompatibile con il perdurare di uno stato di comunione ordinaria rispetto a singoli beni già compresi nell’asse ereditario in divisione (Cass. 23 febbraio 2007, n. 4224): quando infatti siano state compiute le operazioni divisionali, dirette ad eliminare la maggior parte delle varie componenti dell’asse ereditario, indiviso al momento dell’apertura della successione, la comunione residuale sui beni ereditari si trasforma in comunione ordinaria (Cass. 15 febbraio 2010, n. 3470; Cass. 9 gennaio 2007, n. 215; Cass. 6 maggio 2005, n. 9522).

Poichè, dunque, la volontà dei condividenti di ottenere la proprietà indivisa di un immobile che è parte del compendio ereditario non contraddice l’intendimento di porre fine alla comunione ereditaria, è privo di fondamento l’assunto secondo cui la Corte di appello, a fronte della dichiarazione di M.S. e F. di restare comproprietari dell’immobile ubicato in (OMISSIS), avrebbe dovuto prendere atto che gli stessi avevano rinunciato all’azione di divisione ereditaria.

la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario
la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario

La pronuncia impugnata ha quindi correttamente disposto nel senso dell’attribuzione del cespite ai coeredi che ne avevano fatto richiesta, a norma dell’art. 720 c.c..

Per il resto, mette conto di osservare che, in tema di giudizio di divisione, la richiesta di attribuzione di beni determinati può essere proposta per la prima volta in appello, poichè attiene alle modalità di attuazione dello scioglimento della comunione e non costituisce domanda in senso proprio (Cass. 14 agosto 2012, n. 14521; Cass. 28 maggio 2008, n. 14008; Cass. 11 giugno 2007, n. 13654). In particolare, la richiesta di assegnazione integra una mera specificazione di una pretesa rivolta a porre fine allo stato di comunione, che è ammissibile, in appello, ove si correli alla domanda di divisione che sia stata già introdotta in giudizio (Cass. 28 maggio 2008, n. 14008 cit., in motivazione).

 

la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario
la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario

 

 Vero è che, ove sia mancata la tempestiva attivazione del contraddittorio su di una tale richiesta di assegnazione, imputabile alla parte, tardivamente attivatasi oltre il limite della precisazione delle conclusioni, il giudice non è tenuto a esaminare specificamente la deduzione di parte, sicchè la richiesta di attribuzione è inammissibile se formulata soltanto con la comparsa conclusionale del giudizio di secondo grado, e, quindi, al di fuori di ogni possibilità di discussione nel contraddittorio tra le parti (così Cass. 14 agosto 2012, n. 14521). Ma è altrettanto vero che nella fattispecie è stata la stessa Corte di merito – nel quadro di un mutato convincimento circa l’accoglibilità della domanda di divisione, rigettata in prime cure – a sollecitare gli appellanti ad un chiarimento circa la loro volontà di restare comproprietari dell’immobile: chiarimento che è stato reso in udienza, a seguito di rimessione della causa sul ruolo. Non vi è dunque ragione per escludere che la richiesta di assegnazione congiunta da parte degli odierni controricorrenti sia inammissibile: per un verso, infatti, tale richiesta è stata formulata a seguito del doveroso attivarsi officioso dell’organo giudicante, che era tenuto a verificare se procedere alla vendita all’incanto del bene (soluzione, questa, che, come è noto, costituisce rimedio residuale cui ricorrere quando nessuno dei condividenti voglia giovarsi della facoltà di attribuzione dell’intero: per tutte, Cass. 13 maggio 2010, n. 11641); per altro verso, la richiesta è stata formulata in una fase processuale in cui il potere delle parti non era limitato alla mera illustrazione, attraverso gli scritti conclusionali, delle deduzioni già svolte, posto che la richiesta degli appellanti avrebbe potuto essere discussa dalle parti nel quadro del contraddittorio che l’udienza assicurava.

Stabilisce l’art. 747 c.c., che la collazione per imputazione si fa avuto riguardo al valore dell’immobile al tempo del aperta successione.

La collazione per imputazione costituisce una fictio iuris, per effetto della quale il coerede che, a seguito di donazione operata in vita dal de cuius, abbia già anticipatamente ricevuto una parte dei beni a lui altrimenti destinati solo con l’apertura della successione, ha diritto a ricevere beni ereditari in misura ridotta rispetto agli altri coeredi, tenuto conto del valore di quanto precedentemente donatogli: valore determinato al detto momento dell’apertura della successione, senza che i beni oggetto della collazione tornino materialmente e giuridicamente a far parte della massa ereditaria, incidendo i medesimi esclusivamente nel computo aritmetico delle quote da attribuire ai singoli coeredi secondo la misura del diritto di ciascuno (Cass. 30 luglio 2004, n. 14553, in motivazione; Cass. 27 febbraio 1998, n. 2163).

Se il valore del bene donato va quantificato al momento dell’apertura della successione, non sono però irrilevanti, ai fini del computo del detto valore, i miglioramenti che abbiano interessato l’immobile fino a quel momento. Stabilisce infatti l’art. 748 c.c., che si deve dedurre a favore del donatario il valore delle migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al tempo dell’aperta successione. Ciò significa, in concreto, che il valore del bene al momento dell’apertura della successione debba essere ridotto in ragione del valore delle migliorie apportate al bene. Nel caso di alienazione l’art. 749 c.c., dispone, poi, che i miglioramenti fatti dall’acquirente vadano computati nei termini indicati.

Le regole poste dagli artt. 748 e 749 c.c. (che riguardano anche le spese straordinarie e deterioramenti occorsi per colpa del donatario, che qui non rilevano) sono comunemente ritenute espressione dei principi generali che reggono il possesso di buona fede (art. 1150 c.c.) e, più in generale, di quelli in tema di indebito arricchimento. In particolare, il rimborso dei miglioramenti è reso necessario dal rilievo per cui non sarebbe ragionevole imporre al donatario di conferire un valore che non è riferito all’originaria consistenza della res donata, ma che dipende, piuttosto, da iniziative da lui assunte (nel caso di miglioramenti eseguiti a sua cura e spese) o da interventi di terzi che abbiano inteso favorirlo (nel caso in cui i miglioramenti siano apportati da altri: la giurisprudenza – cfr. Cass. 18 giugno 1981, n. 4009 – infatti riconosce che la norma di cui all’art. 748 c.c., trovi applicazione anche nel caso di migliorie eseguite da terzi).

Le migliorie di cui agli artt. 748 e 749 c.c., si identificano in quelle opere che si incorporino nel fondo ed aumentino le opere esistenti, ovvero ne migliorino l’efficienza (Cass. 5 ottobre 1974, n. 2621); movendo poi dal rilievo per cui la relazione al libro III del codice civile indica come miglioramenti la liberazione della cosa da pegni, ipoteche, oneri reali, servitù (e che si era perciò ritenuto superfluo riprodurre nel codice l’art. 546 del progetto della commissione reale che riconosceva al possessore di diritto a indennità per le spese fatte per realizzare tali liberazioni), questa S.C. ha identificato una miglioria anche nell’affrancazione del fondo enfiteutico, semprechè il donatario provi di avervi provveduto a propria cura e spese (Cass. 23 gennaio 1991, n. 649). E’ escluso, invece, che possano costituire migliorie le vicende che non abbiano alcuna attinenza alle evenienze descritte, come l’acquisizione, da parte del fondo, di una attitudine edificatoria prima mancante. Il mutamento della destinazione urbanistica del fondo non dipende da un’attività del donatario o del terzo che è diretta a incrementare il valore del bene: non è correlativo a un esborso del donatario o all’arricchimento, corrispondente al valore delle opere realizzate, che il terzo abbia voluto porre in essere in favore di quel soggetto; essa non risponde, quindi, alla finalità che sottende il regime dei miglioramenti della res donata.

la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario
la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario

Vero è, invece, che tale mutamento della destinazione del bene costituisce una variabile economica da tenere in conto ai fini della stima del bene al momento dell’apertura della successione. Sul punto, questa Corte ha infatti ritenuto che poichè ai fini della determinazione della quota di eredità riservata al legittimario il valore dell’asse ereditario residuo e dei beni donati in vita dal de cuius va calcolato al momento dell’apertura della successione, anche l’inizio di un procedimento di trasformazione urbanistica è di per sè sufficiente ad incidere sul valore di mercato di un immobile compreso nell’area oggetto dello strumento urbanistico (Cass. 24 novembre 2009, n. 24711).

D’altro canto, la soluzione indicata da parte ricorrente conduce alla inaccettabile conseguenza per cui, a fronte di un medesimo fatto (il mutamento della destinazione urbanistica del fondo), la collazione avrebbe ad oggetto il valore di mercato del bene, nel caso in cui questo sia rimasto nella disponibilità del donatario, e il valore del bene al netto dell’incremento determinato dalla sopraggiunta vocazione edificatoria del fondo, nel caso in cui questo sia stato invece alienato.

Rimane quindi confermato che, anche nell’ipotesi di alienazione del bene – il quale abbia subito un incremento di valore per effetto di una destinazione edificatoria insussistente al momento del trasferimento – il bene debba essere stimato, ai fini della collazione, facendo riferimento al momento in cui si apre la successione.

Nè è fondata la questione di costituzionalità oggetto del sesto motivo. La violazione del principio di eguaglianza non sussiste, dal momento che l’alienazione del fondo (situazione che l’istante lamenta essere associata nel medesimo trattamento normativo riservato alla conservazione del bene da parte del donatario) è vicenda che dipende da una evenienza estrinseca e occasionata dalla libera scelta dell’interessato. Va qui rammentato che non danno luogo a un problema di costituzionalità le disparità derivanti da circostanze contingenti e accidentali, riferibili non alla norma considerata nel suo contenuto precettivo, ma semplicemente alla sua concreta applicazione (C. cost. 13 giugno 1997, n. 175).

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