RAVENNA Professione medica e omicidio colposo DANNO RISARCIMENTO

RAVENNA Professione medica e omicidio colposo DANNO RISARCIMENTO

Tribunale|Ravenna|Penale|Sentenza|1 dicembre 2015| n. 153

Professione medica e omicidio colposo – Responsabilità medica – Colpa professionale – Integrazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 589 c.p. – Nesso di causalità

Nel caso in esame, pertanto mediante il c.d. “giudizio controfattuale” si dovrà verificare se, dato per fatto quanto l’imputata avrebbe dovuto fare, sia consentito o meno affermare che vi sarebbero state probabilità di grado prossimo alla certezza di evitare la morte della paziente od almeno di procrastinarla per un tempo significativo (cfr. anche, sul punto Cass. pen. Sez. 4, n. 35115 del 24/05/2007).

Orbene, sono gli stessi consulenti ad affermare che nel processo che ha condotto al decesso dell’AL. si deve prevedere l’interferenza di decorsi alternativi rispetto alla condotta omissiva del sanitario e costituiti dallo stadio di gravità della lesione, dalla virulenza dei germi accentuata dalla accelerazione del processo patologico registrato in poche settimane, dalla delicatezza ed invasività del trattamento chirurgico, elementi che non consentono di esprimere un giudizio di certezza di risoluzione della vicenda (pag. 21 relazione scritta). Solo in sede di esame orale, i periti dapprima affermano di non sapere a fronte di una diagnosi precoce effettuata al 4/2/2010 quale sarebbe stato l’exitus, certamente fuoriuscendo dall’alveo della certezza, potendosi semmai ragionare in termini di probabilità, diciamo elevate.

 

 

Tali incognite di vario spessore e peso hanno portato i periti a non esprimere un giudizio di certezza in ordine alla decisività dell’operato della dott.ssa Valenti sul decorso dell’infezione che ha condotto a morte l’AL., poiché anche un tempestivo intervento diagnostico avrebbe dovuto scontare l’interferenza di altri fattori, determinanti nel processo evolutivo della lesione, con diversa evoluzione della malattia, e tali da non garantire un effetto risolutivo ad una più tempestiva indagine strumentale, ma solo una probabilità seppure elevata di riuscita

 

 

 

Tale probabilità, non ulteriormente specificata, a fronte del quadro di possibili interferenze nel processo evolutivo morboso, non appare elemento sufficiente ad un accertamento certo ed incontrovertibile della sussistenza di un nesso di causalità tra il decesso e la mancata condotta omissiva imputata al sanitario.

Tribunale|Ravenna|Penale|Sentenza|1 dicembre 2015| n. 153

Professione medica e omicidio colposo – Responsabilità medica – Colpa professionale – Integrazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 589 c.p. – Nesso di causalità

 

RAVENNA Professione medica e omicidio colposo DANNO RISARCIMENTO

Tribunale|Ravenna|Penale|Sentenza|1 dicembre 2015| n. 153

Professione medica e omicidio colposo – Responsabilità medica – Colpa professionale – Integrazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 589 c.p. – Nesso di causalità

 

del reato p. e p. dagli artt. 40/2 co., 589 c.p., perché, in qualità di medico del pronto soccorso di Cervia che visitò Al.Ch. ivi giunto, riferendo “tono dell’umore depresso nell’ultimo periodo ed in trattamento con antidepressivi, cefalea con aura fin dalla giovane età, oggi ennesimo episodio analogo ai precedenti per intensità e localizzazione e distribuzione risolto al momento della visita” – dopo che qualche ora prima era intervenuta una autoambulanza a casa sua riscontrando “nausea, vomito svenimento ed astenia” -, medico eh ebbe occasione di visionare l’esame emocromocitometrico dal quale risultava una leucocitosi neutrofila (16.290 globuli bianchi, 92,7% neutrofili) e quindi indicativa di un processo infiammatorio in fase di acuzie, per colpa consistita in negligenza ed imperizia in particolare non avendo in alcun modo considerato l’esito dell’esame di laboratorio, infatti il paziente veniva dimesso con la diagnosi di “somatizzazione ansiosa” e non avendo disposto o consigliato alcun esame di approfondimento (consulenze adeguate previo esame per immagini) a fronte di quanto emerso dal più volte citato esame, in modo tale da riscontrare l’incipiente ascesso cerebrale o quantomeno bloccare l’infiammazione e quindi il suo insorgere con adeguate terapie, in tal modo non impediva che il paziente fosse colpito da un ascesso cerebrale che lo portava alla morte il 14.3.2010, nonostante specifiche terapie instaurate dal giorno 12.3.2010.

Tribunale|Ravenna|Penale|Sentenza|1 dicembre 2015| n. 153

Professione medica e omicidio colposo – Responsabilità medica – Colpa professionale – Integrazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 589 c.p. – Nesso di causalità

 

TRIBUNALE DI RAVENNA

GIUDICE UNICO DI PRIMO GRADO

UFFICIO DEL G.U.P.

DISPOSITIVO DI SENTENZA

E

MOTIVAZIONE SUCCESSIVA

(artt. 425 c.p.p.)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il G.U.P., Dott.ssa Antonella GUIDOMEI all’udienza del 05/03/2014, in Camera di Consiglio ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

Nei confronti di:

Va.Iv.

Nata (…)avvocato-erede-legittimo-8

Residente in Ravenna Via (…)

Ove elegge domicilio

LIBERA – PRESENTE

IMPUTATA

  1. a) del reato p. e p. dagli artt. 40/2 co., 589 c.p., perché, in qualità di medico del pronto soccorso di Cervia che visitò Al.Ch. ivi giunto, riferendo “tono dell’umore depresso nell’ultimo periodo ed in trattamento con antidepressivi, cefalea con aura fin dalla giovane età, oggi ennesimo episodio analogo ai precedenti per intensità e localizzazione e distribuzione risolto al momento della visita” – dopo che qualche ora prima era intervenuta una autoambulanza a casa sua riscontrando “nausea, vomito svenimento ed astenia” -, medico eh ebbe occasione di visionare l’esame emocromocitometrico dal quale risultava una leucocitosi neutrofila (16.290 globuli bianchi, 92,7% neutrofili) e quindi indicativa di un processo infiammatorio in fase di acuzie, per colpa consistita in negligenza ed imperizia in particolare non avendo in alcun modo considerato l’esito dell’esame di laboratorio, infatti il paziente veniva dimesso con la diagnosi di “somatizzazione ansiosa” e non avendo disposto o consigliato alcun esame di approfondimento (consulenze adeguate previo esame per immagini) a fronte di quanto emerso dal più volte citato esame, in modo tale da riscontrare l’incipiente ascesso cerebrale o quantomeno bloccare l’infiammazione e quindi il suo insorgere con adeguate terapie, in tal modo non impediva che il paziente fosse colpito da un ascesso cerebrale che lo portava alla morte il 14.3.2010, nonostante specifiche terapie instaurate dal giorno 12.3.2010.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

Il P.M. ha chiesto il rinvio a giudizio di Va.Iv., chiamata a rispondere del reato in epigrafe specificato.

In tesi d’accusa l’imputata, medico di pronto soccorso all’Ospedale Civile di Ravenna avendo valutato in modo inadeguato l’esame emocromocitometrico dal quale risultava una leucocitosi neutrofila e quindi indicativa di un processo infiammatorio in atto il 4/2/2010 avrebbe colposamente ritardato la diagnosi di ascesso cerebrale sul paziente Al.Ch., deceduto proprio a causa di quella patologia il 14/3/2010.

  1. In mancanza di richieste di riti alternativi richiesti dalla difesa dell’imputata, il Giudice invitava alla discussione dell’udienza preliminare, e sulle conclusioni delle parti in epigrafe richiamate, il Giudice dell’udienza preliminare decideva con declaratoria di non luogo a procedere,’ come in dispositivo.
  2. Ritiene il Giudice dell’udienza preliminare, infatti, che non vi siano elementi sufficienti per procedere a un utile dibattimento. Il Giudice dell’udienza preliminare deve giungere alla sentenza di non luogo a procedere, prevista dall’art. 425 c.p.p., allorquando verifichi che non sussistono le condizioni per formulare una prognosi di evoluzione, in senso favorevole all’accusa, del materiale di prova raccolto (così Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14034 del 18/03/2008 Cc. – dep. 03/04/2008 – Rv. 239514).
  3. Non è richiesto, infatti, che a seguito della predetta prognosi in merito all’esito del giudizio, per procedere al proscioglimento, il Giudice pervenga ad una valutazione di innocenza dell’imputato, ma è sufficiente e necessario che non esista alcuna prevedibile possibilità che il dibattimento possa giungere ad un esito diverso da quello dell’innocenza dell’imputato (così Cass. Sez. 4, Sentenza n. 13163 del 31/01/2008 Cc. – dep. 28/03/2008 – Rv. 239597).
  4. Per altro anche quando il dibattimento risulti inutile, seppur in presenza di elementi probatori contraddittori od insufficienti, qualora sia ragionevolmente prevedibile che gli stessi siano destinati a rimanere tali all’esito del giudizio, il giudice deve pronunciare sentenza ex art. 425 c.p.p. (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 47169 dell’08/11/2007 Ud. – dep. 20/12/2007 – Rv. 238251).
  5. Dalla documentazione medica in atti, dagli esiti della consulenza medico – legale e autoptica disposta dal consulente del P.M., e della perizia medico – legale disposta dal Gip in sede di incidente probatorio emerge, quale circostanza condivisa e pacifica che Al.Ch., di anni 38, decedeva presso l’Ospedale Bu. il 14/3/2010 a causa di encefalopatia acuta ed irreversibile conseguente a processo espansivo infettivo cerebrale da fistolizzazione di rinosnusite, trattata chirurgicamente il 12/3/2010.
  6. La documentazione medica raccolta in atti dà conto di soggetto con anamnesi positiva per depressione e cefalea con aura per le quali l’AL. era seguito da specialista neurologo, dott. Bu., a partire dall’anno 2004, con trattamento farmacologico.
  7. La stessa documentazione informa che il 27 agosto 2009 l’AL. eseguiva Risonanza magnetica dell’Encefalo da cui emergeva unicamente “in via collaterale alterazione di segnale dei seni etmoidmascellari verosimilmente come da sinusopatia”.
  8. Il 14 gennaio 2010 l’uomo si recava al P.S. dell’Ospedale di Ravenna a causa di presincope, con cedimento arti (…), astenia risultando in aerosolterapia per sinusopatia insorta per pregresso episodio influenzale. Gli esami ematochimici evidenziavano una lieve leucocitosi (globuli bianchi 12.280) ed un quadro di anemia microcitica.
  9. Il successivo 25 gennaio 2010 l’AL. si recava presso il neurologo di fiducia (dott. Bu.) che segnalava recidiva con attacchi di panico”.
  10. Il 4 febbraio 2010 – episodio che interessa l’odierna imputata trovandosi di servizio presso il locale P.S. – l’AL. accedeva nuovamente al pronto Soccorso dell’Ospedale di Ravenna, ove riferiva “ennesimo episodio analogo ai precedenti per intensità e localizzazione e distribuzione risolto al momento della visita”.

L’esame emocromocitometrico evideniava leucocitosi neutrofila (16.290 globuli bianchi).

Veniva sottoposto a visita psichiatrica che rilevava: “da circa un mese quadro sintomatologico di tipo depressivo in cura dott. Bu. Riferisce che con l’attuale terapia ha iniziato a dormire e mangiare da qualche giorno. Non disturbi dell’ideazione né della senso – percezione. Non ideazione suicidiaria. Riferisce forte astenia.

Veniva dimesso con diagnosi di somatizzazione ansiosa. Successivamente in data 4/3/2014 si recava dallo specialista otorinolaringoiatra (dott. Ca.) ove veniva posta diagnosi di “rinosinusopatia muco purulenta etmoidale-mascellare-fontale in fase iperalgica”.

Il 7 marzo 2010 AL. accedeva nuovamente presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale di Ravenna in quanto si risveglia con sensazione di paura ed episodio di vomito alimentare non dolore toracico non dispena paziente in terapia imprecisata per crisi di panico e/o cardioplomonare nella norma addome trattabile mv normodistribuito”.

Il 12 marzo AL. giungeva al PS in stato soporoso per la comparsa di episodio convulsivo al domicilio, ripetuto al PS. L’indagine tomografica eseguita all’ingresso rivelava la presenza in sede frontaledestra di lesione espansiva ipodensa, capsulata, dei diametri assali di circa 4 cm x 5,5 cui si associa vallo edemigeno perilesionale con effetto massa sulle strutture limitrofe con shift della linea mediana a sin di circa 1 cm.”.

Trasportato immediatamente all’Ospedale Bu. di Cesena veniva sottoposto ad intervento chirurgico di craniotomia ed evacuazione dell’accesso cerebrale; l’esame microbiologioco rivelava infezione da streptococcus constellatus.

Il decorso post-operatorio rivelava fin dalla prima giornata compromissione delle funzioni encefaliche secondo i parametri previsti per dare l’avvio alle procedure di accertamento morte.

Il 14 marzo 2010 alle ore 11,50 si registrava un arresto cardiocircolatorio che determinava il decesso di Al.Ch.

In questa sequenza di accadimenti il consulente del P.M. valorizzava l’attento esame obiettivo eseguito presso il Servizio di Pronto Soccorso quel 4 febbraio 2010 dal quale risultava del tutto negativo per patologia neurologica, in cui la sintomatologia manifestata era priva di alcuna specificità per evoluzione ascessuale cerebrale della patologia sinusitica mentre era certamente riconducibile etiopatogeneticamente anche alle patologie di cui lo stesso AL. soffriva cronicamente. Nessuna indicazione, secondo il consulente portava a ritenere necessaria un’indagine strumentale, stante anche un’indagine in tal senso negativa per patologie encefaliche eseguita solo 6 mesi addietro (risonanza magnetica del 27 agosto 2009).

La perizia svolta in sede di incidente probatorio a seguito di opposizione all’archiviazione (nei confronti di tutti i medici intervenuti nella vicenda), invece evidenziava come la documentazione di un’infezione in fase di acuzie, ossia la leucocitosi neutrofila, fin dall’accesso al P.S. del 4 febbraio 2010 – quando era in servizio l’odierna imputata – avrebbe consigliato un’ulteriore indagine diagnostica per immagini mediante TAC encefalo o Risonanza Magnetica Nucleare (pag. 19).

A tale data, continua il perito (pag. 7 verb ud. incid. prob.) vi sarebbero state sicuramente delle evidenze per un processo espansivo endocranico che avrebbe comportato una diagnosi più precoce con la possibilità di intervenire più di un mese prima rispetto a quanto avvenuto con chance di sopravvivenza nettamente superiori, senza alcuna garanzia però di evitare l’exitus trattandosi di patologia grave, di un intervento (craniotomia) delicato e non sappiamo quindi quale sarebbe stato l'(exitus ndr). Non c’è certezza che il paziente si sarebbe salvato riferiva infatti fin dalla relazione scritta il perito (pag. 21 relazione scritta) intervenendo una pluralità di fattori: stadio di gravità, virulenza dei germi, notevole accelerazione del processo patologico registrato in poche settimane, trattandosi comunque di intervento delicato non scevero da complicazioni.

A miglior comprensione in sede di esame orale del perito lo stesso precisava che le chanche di un intervento risolutivo erano elevate.

E sempre per una miglior comprensione del momento di insorgenza dell’ascesso il perito, tenuto conto della sintomatologia lamentata dal paziente a partire dal 25 gennaio, specifica che la data risale più o meno al periodo che è stato visitato al P.S. dell’Ospedale di Ravenna, ossia all’inizio di febbraio.

La sinusite etmoido – frontale da cui era affetto l’AL., continua il perito, può portare a complicanze specifiche, sebbene non comuni, quali gli ascessi cerebrali.

Vari sono gli aspetti della vicenda che non permettono di giungere, a parere di questo giudice, all’esito del dibattimento per come richiesto dal P.M. ad un accertamento positivo di responsabilità dell’imputata, sotto l’egida della regola di giudizio che deve connotare ogni declaratoria di condanna penale, ossia “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Invero, i periti Dott. Ta.Ad. e Ma.Vi. – nominati in sede di incidente probatorio a seguito di un supplemento indagini disposto in sede di opposizione all’archiviazione – evidenziano nella relazione scritta come l’esame strumentale della TAC o RSM (i soli idonei a diagnosticare la lesione in atto) disposto il 4/2/2010 avrebbe evidenziato la lesione cerebrale che ha condotto a morte l’AL.; ma in sede del rigoroso esame orale nell’ambito dell’incidente probatorio, sulla circostanza della sintomatologia che avrebbe dovuto condurre il medico del P.S. a richiedere tale esame strumentale, individuavano l’allarmante dato di laboratorio dal quale emergeva la presenza di 16.000 globuli bianchi. A tal riguardo, concludevano però sul fatto che tale dato di laboratorio avrebbe richiesto un’indagine ulteriore conducendo il medico a provvedere al ricovero del paziente, o quantomeno ad un consiglio, un qualche cosa (ved. verb. ud. pag. 30, 43).

Orbene, la censura dei periti in ordine alla condotta del medico di P.S. che ha visitato l’AL. quel 4 febbraio 2010 non si appunta allora sulla mancanza di un esame strumentale, quale la TAC o RSM – i soli esami strumentali in grado di evidenziare la lesione cerebrale – ma sulla mancanza di un proseguimento di indagine diagnostico, che non è ben individuato o specificato neppure dai periti, che hanno indicato un possibile ricovero, anche a titolo di consiglio; la conclusione generica ed indefinita di fare comunque “qualche cosa” si commenta da sé. Lo stesso perito (Ma.) specificava inizialmente che la presenza di 1.6.000 globuli bianchi, che indiscutibilmente sono indicatori di un’infiammazione in atto, ben potevano essere il sintomo di un ascesso dentario, di una piccola pleure (pag. 28).

Non può non sottolinearsi che il paziente si presentava al P.S. con una patologia cefalica di cui soffriva dalla giovane età e con una patologia di ansia per cui era in cura da uno specialista neurologo dal 2004, e dal quale era stato visitato pochi giorni prima dell’accesso al P.S. (il 25/1/2010) con diagnosi di recidiva con attacchi di panico. Inoltre, il 14 gennaio precedente si era recato al P.S. riferendo astenia in privazione ipnica, influenza poi sinusite in cura con aerosol.

Sul punto, pertanto, l’esame peritale non appare indicare con sufficiente precisione il comportamento controfattuale che avrebbe dovuto porre in essere l’odierna imputata quale medico di P.S. quel 4 febbraio 2010, per evidenziare la lesione cerebrale causa del decesso dell’AL., unicamente individuabile con un esame strumentale tipo TAC o RSM, che però lo stesso collegio peritale non individua come esame da effettuare a fronte dell’unico elemento da indagare: la presenza dei 16.000 globuli bianchi. Tale dato, come rilevato dalla stesso consulente della difesa dott. Fa., e non contrastato dai periti, poteva giustificarsi con il precedente stato influenzale di cui aveva sofferto l’AL. e con la sinusite per la quale era ancora in terapia aerosol alla data del precedente accesso al P.S. del 14 gennaio 2010. Pertanto, sicuramente la TAC o la RSM era l’esame strumentale in grado di accertare la lesione cerebrale per la quale è deceduto l’AL., ma alla data del 4 febbraio 2010, non sono emersi elementi indicatori per condurre il medico a sottoporre l’AL. ad un’indagine strumentale di tale tipo, ben potendo l’alterazione dei globuli bianchi trovare altre giustificazioni.

Sul punto appare pertanto accoglibile l’esito della consulenza svolta dal P.M, laddove non individuava condotte omissive da parte dei medici del P.S. direttamente collegabili con il decesso del paziente, poiché non sono emersi soprattutto nell’accesso al P.S. qui in esame, sintomi o segni che potessero giustificare indagini strumentali in grado di evidenziare la lesione cerebrale, essendo del tutto negativo il quadro relativo all’anamnesi neurologica. Non appare ultroneo osservare che il paziente era seguito da un neurologo di fiducia dal quale era stato visitato qualche giorno prima, e che nulla aveva rilevato in ordine ad un quadro neurologico, ed i cui sintomi riferiti portavano il medico a ritenere un aggravamento del quadro psichico.

Inoltre, un mese dopo (4/3/2010) l’accesso al Pronto Soccorso qui in esame l’AL. effettuava una visita dall’otorinolaringoiatra il quale diagnosticava una rinosinusopatia muco purulenta, senza intravedere complicanze endocraniche, prescrivendo una sola terapia antibiotica. Questo un mese dopo la visita da parte dell’odierna imputata. Invero, il quadro clinico dell’accesso cerebrale è ben lungi dall’essere stereotipato, ma se la cefalea è il sintomo clinico principale in molti pazienti, le crisi epilettiche o segni focali particolari predominano in altri. In molti casi i sintomi evolvono velocemente nell’arco di una settimana e se ne aggiungono di nuovi ogni giorno. Ma l’ulteriore caratteristica degli ascessi cerebrali è l’imprevedibilità con cui i sintomi possono evolvere.

Il solo dato di laboratorio dell’alterazione dei globuli bianchi, pertanto, come chiarito in sede di esame orale della perizia non avrebbe da solo condotto a richiedere una TAC o una RSM quel 2 febbraio 2010, unici esami strumentali utili all’accertamento diagnostico della lesione che ha condotto a morte il paziente.

In ogni caso, è lo stesso collegio peritale che non individua con sufficiente chiarezza e determinazione la data di insorgenza della lesione cerebrale, e quindi la sua evidenza clinico – strumentale e, pertanto, l’idoneità degli esami strumentali ad evidenziare alla data del 4/2/2010 la lesione cerebrale che avrebbe indotto ad intraprendere immediatamente una terapia antibiotica ed eventualmente l’intervento chirurgico.

Infatti, dapprima in sede di stesura della relazione peritale (pag. 19) l’infezione ascessuale viene collocata, almeno in misura di due settimane dal decesso (quindi alla fine di febbraio/inizio marzo), per poi invece in sede di esame orale riferirsi al periodo più o meno in cui è stato visto al P.S. con la precisazione, ma sempre in linea approssimativa, dall’inizio di febbraio (pag. 8 verb. ud.).

Orbene, non può che prediligersi la prima indicazione temporale, ossia di insorgenza dell’infezione cerebrale da almeno due settimane prima, tesi supportata dalla genesi anatomopatologica dell’ascesso cerebrale, chiaramente sintetizzata a pag. 18 della relazione, in cui i periti danno l atto del passaggio dal processo infiammatorio dalla fase della presenza di edema che circonda la zona ascessuale alla fase di formazione di tessuto di granulazione e sviluppo della capsula, quest’ultima emersa in sede di esame strumentale il 12/3/2010.

Orbene, l’intero processo ha uno sviluppo di almeno 2 settimane; di qui la coerente conclusione a cui è prevenuto il collegio peritale di poter collocare la presenza di infezione cerebrale da almeno due settimane, senza invece, indicare, in maniera altrettanto sicura se tale insorgenza sia antecedente a tale data.

L’inquadramento del processo di insorgenza della lesione cerebrale ad evidenza strumentale, porta totalmente fuori dall’ambito di operatività dell’odierna imputata, la quale è intervenuta oltre un mese prima del decesso.

Volendo invece, seguire l’indicazione temporale di insorgenza della lesione cerebrale offerta in sede di discussione orale della perizia – non sussistendo però elementi a conforto di tale tesi – il riferimento è talmente generico e soffre di un’approssimazione tale da rendere del tutto incerto il periodo di insorgenza della lesione cerebrale.

Ciò posto, è comunque il profilo riguardante la prova del nesso causale tra le omissioni attribuite all’odierna imputata – con le riserve sopra espresse – e il decesso del paziente a presentare un ulteriore aspetto di problematicità.

E’ opportuno ricordare i tre fondamentali principi, in tema di causalità, affermati con la nota sentenza Fr. (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Rv. 222139):

1) non è possibile chiedere al giudice un accertamento del nesso causale in termini prossimi alla certezza, secondo l’orientamento espresso a far data dalla sentenza Bo. del 1990 (Sez. 4, n. 4793 del 06/12/1990, dep. 29/04/1991, Rv. 191793), con i primi accenni, e fino ad arrivare a quelle – più significativamente e decisamente orientate nel senso della necessità dell’accertamento del nesso di causalità in termini di “probabilità vicina alla certezza” – pronunciate poco prima dell’intervento del 2002 delle Sezioni Unite, in particolare le sentenze Ba. (Sez. 4, n. 9780 del 28/09/2000, dep. 09/03/2001, Rv. 218777), Mu. (Sez. 4, n. 9793 del 29/11/2000, dep. 09/03/2001, Rv. 218781), Sg. (Sez. 4, n. 1585 del 25/09/2001, dep. 16/01/2002, Rv. 220982) e Covili (Sez. 4, n. 5716 del 25/09/2001, dep. 13/02/2002, Rv. 220953);

2) parimenti non è possibile ancorare l’eziologia di un evento a giudizi di mera possibilità, al criterio del riscontro di serie ed apprezzabili possibilità di successo, secondo l’orientamento espresso con la sentenza Me. (Sez. 4, n. 4320 del 07/01/1983, Rv. 158947), ovvero che si possa estendere la responsabilità per omesso impedimento dell’evento attraverso le teorie dell’aumento del rischio o della perdita di chances;

3) è necessario approdare, quindi, ad un giudizio di alta probabilità logica o di elevata credibilità razionale.

La strada segnata dalle Sezioni Unite cit., è dunque nel senso della necessità di procedere al giudizio controfattuale al fine di verificare se, eliminata mentalmente la condotta presa in considerazione, l’evento si sarebbe ugualmente verificato, confermando la necessità che la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc provenga da attendibili risultati di generalizzazioni del senso comune ovvero facendo ricorso generalizzante della sussunzione del singolo evento sotto leggi scientifiche che consenta di affermare che l’antecedente può essere considerato condizione necessaria dell’evento se rientra tra quelle conseguenze che le leggi di “copertura” consentono di ritenere aver provocato l’evento.

Secondo le sezioni unite “il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici”. Passando poi a trattare più specificamente della causalità omissiva la sentenza citata, senza addentrarsi nella soluzione del problema teorico della natura reale, o meramente normativa, dell’effetto condizionante nei reati omissivi impropri, ha però richiamato, condividendolo, l’orientamento che ritiene valido il “paradigma unitario di imputazione dell’evento” con riferimento al “condizionale controfattuale” la cui formula deve rispondere al quesito se “mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo “coperto” dal sapere scientifico del tempo”.

Non viene dunque in considerazione lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità ma la sua concreta “verificabilità processuale” e su tale problema la Corte ha ritenuto di non condividere l’orientamento che, particolarmente sul tema dei trattamenti terapeutici, faceva riferimento, al fine di ritenere accertato il nesso di condizionamento, alle “serie e apprezzabili probabilità di successo” del trattamento omesso in quanto, con questa formula, si esprimono coefficienti indeterminati di probabilità con il rischio di violare i principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio.

Fatte queste premesse le sezioni unite hanno indicato una via che riconduce la soluzione del problema all’accertamento processuale dell’esistenza del nesso di condizionamento alla stregua di quei canoni di “certezza processuale”, non dissimili da quelli utilizzati per l’accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie, che conduca, all’esito del ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da “alto grado di credibilità razionale”. In quest’ottica, secondo la sentenza citata, “non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico “prossimo ad 1”, cioè alla “certezza”, guanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento”, la “certezza processuale” può derivare anche dall’esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità c.d. frequentista quando, corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del rapporto di causalità. Per converso livelli elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Con la conseguenza che non è “consentito dedurre automaticamente e proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità”. È inadeguato, infatti, secondo la sentenza in esame, esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum mediante coefficienti numerici mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi per cui le sezioni unite mostrano di condividere quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento alla c.d. “probabilità logica” che, rispetto alla c.d. “probabilità statistica”, consente la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica al singolo evento.

Solo con l’utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull’esistenza del rapporto di causalità in modo non dissimile dall’accertamento relativo a tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili “dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p.” al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che “esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione “necessaria” dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio”. Mentre l’insufficienza, la contradditorietà e l’incertezza del riscontro probatorio, e quindi il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva, non possono che condurre alla negazione dell’esistenza del nesso di condizionamento.

Nel caso in esame, pertanto mediante il c.d. “giudizio controfattuale” si dovrà verificare se, dato per fatto quanto l’imputata avrebbe dovuto fare, sia consentito o meno affermare che vi sarebbero state probabilità di grado prossimo alla certezza di evitare la morte della paziente od almeno di procrastinarla per un tempo significativo (cfr. anche, sul punto Cass. pen. Sez. 4, n. 35115 del 24/05/2007).

Orbene, sono gli stessi consulenti ad affermare che nel processo che ha condotto al decesso dell’AL. si deve prevedere l’interferenza di decorsi alternativi rispetto alla condotta omissiva del sanitario e costituiti dallo stadio di gravità della lesione, dalla virulenza dei germi accentuata dalla accelerazione del processo patologico registrato in poche settimane, dalla delicatezza ed invasività del trattamento chirurgico, elementi che non consentono di esprimere un giudizio di certezza di risoluzione della vicenda (pag. 21 relazione scritta). Solo in sede di esame orale, i periti dapprima affermano di non sapere a fronte di una diagnosi precoce effettuata al 4/2/2010 quale sarebbe stato l’exitus, certamente fuoriuscendo dall’alveo della certezza, potendosi semmai ragionare in termini di probabilità, diciamo elevate. Tali incognite di vario spessore e peso hanno portato i periti a non esprimere un giudizio di certezza in ordine alla decisività dell’operato della dott.ssa Valenti sul decorso dell’infezione che ha condotto a morte l’AL., poiché anche un tempestivo intervento diagnostico avrebbe dovuto scontare l’interferenza di altri fattori, determinanti nel processo evolutivo della lesione, con diversa evoluzione della malattia, e tali da non garantire un effetto risolutivo ad una più tempestiva indagine strumentale, ma solo una probabilità seppure elevata di riuscita. Tale probabilità, non ulteriormente specificata, a fronte del quadro di possibili interferenze nel processo evolutivo morboso, non appare elemento sufficiente ad un accertamento certo ed incontrovertibile della sussistenza di un nesso di causalità tra il decesso e la mancata condotta omissiva imputata al sanitario.

Tutti tali aspetti ed in primo luogo il dubbio sull’effettiva insorgenza dell’evidenza strumentale al momento dell’accesso al P.S. il 4/2/2010, e l’insufficienza del quadro clinico in ordine alla richiesta di accertamenti strumentali con immagini, fanno intravedere, sotto il profilo prognostico, l’insostenibilità dell’accusa in giudizio, poiché la completezza delle indagini (consulente del P.M., perizia già disposta ed esaminata innanzi al giudice) fa ritenere insuscettibile il compendio probatorio a subire mutamenti per la fase del dibattimento, proprio perché costituito da un’anticipazione della prova dibattimentale. Si impone pertanto una declaratoria di non luogo a procedere per insufficienza degli elementi probatori a sostenere l’accusa in giudizio.

P.Q.M.

Il Giudice dell’udienza preliminare,

visto l’art. 425 c.p.p., dichiara non luogo a procedere nei confronti di Va.Iv. in ordine al reato contestatole in rubrica, perché il fatto non sussiste.

Così deciso in Ravenna il 5 marzo 2014.

Depositata in Cancelleria l’1 dicembre 2015.

RAVENNA Professione medica e omicidio colposo DANNO RISARCIMENTO

Tribunale|Ravenna|Penale|Sentenza|1 dicembre 2015| n. 153

Professione medica e omicidio colposo – Responsabilità medica – Colpa professionale – Integrazione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 589 c.p. – Nesso di causalità

 

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