MEDICI CONDANNATI PER CONCUSSIONE

MEDICI CONDANNATI PER CONCUSSIONE

Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Messina riformava parzialmente la pronuncia di primo grado del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città del 21/02/2017, revocando le statuizioni civili, e confermava nel resto la medesima pronuncia con la quale C.G. e L.G., dirigenti medici degli ospedali riuniti “(OMISSIS)” di (OMISSIS), rispettivamente il primo del reparto di ostetricia e ginecologia, il secondo di quello di anestesia e rianimazione, erano stati condannati alla pena di giustizia in relazione ai delitti loro ascritti in concorso di cui all’art. 81 cpv. c.p., artt. 110 e 317 c.p. (capi d’imputazione A) e D), art. 81 cpv. c.p., artt. 110 e 61 c.p., n. 2 e art. 314 c.p. (capo B), art. 81 cpv. c.p. e art. 110 c.p., L. n. 194 del 1978, art. 19, (capi C) ed E), in questa secondo caso nella forma del tentativo); il solo C. anche in relazione ai delitti di cui agli artt. 56 e 317 c.p. (capo F) e art. 640 c.p., comma 2, n. 1, (capo G); il L. anche al reato di cui all’art. 61 c.p., n. 2 e art. 328 c.p. (capo H).

 

In particolare, la Corte territoriale rilevava come, riconosciuta ai prevenuti la qualifica di pubblico ufficiale ovvero di incaricato di pubblico servizio, le carte del processo avessero dimostrato la fondatezza delle ipotesi accusatorie in base alle quali poteva dirsi accertato che, tra il (OMISSIS), i due imputati avevano costretto quattro donne in stato di gravidanza ( L.G.C., S.S., Ci.Pa. e F.I.N.) a dare o promettere loro denaro e a sottoporsi a interventi illegali di interruzione della gravidanza presso lo studio privato del C. – struttura non abilitata, privi dei requisiti di legge, dunque pericolosa per la salute fisica e psichica di quelle pazienti facendo apparire falsamente come difficoltoso o impraticabile l’iter della procedura di interruzione della gravidanza in una struttura pubblica, e proponendo loro, come unica soluzione per poter ottenere l’aborto in tempi brevi e nei termini di legge, l’esecuzione di quell’intervento nel predetto studio privato; che analoga iniziativa delittuosa era stata attuata, tra il (OMISSIS), dai due medici nei riguardi di altra donna incinta, A.F., costretta a versare la somma di 1.200 Euro, per un intervento di interruzione della gravidanza che, però, non era stato eseguito in quanto la predetta non si era presentata presso lo studio ove i medici la stavano attendendo; che era stato comprovato che i due sanitari, per consumare i suddetti delitti, si erano anche appropriati di una cassetta di strumenti chirurgici e di farmaci destinati alle sole strutture ospedaliere pubbliche; che un tentativo di concussione era stato posto in essere, il (OMISSIS), sempre con le medesime modalità, ai danni della paziente P.V., dal solo C., il quale, fino all'(OMISSIS), aveva anche truffato l’ente pubblico gestore dell’ospedale ove lavorava, percependo ogni mese l’indennità di esclusiva, avendo omesso di segnalare, e così inducendo in errore l’ente datore di lavoro, che egli esercitava la libera professione nel suo studio privato; e ancora, che il L., il (OMISSIS), cioè lo stesso giorno in cui doveva recarsi nello studio del C. per il programmato intervento sulla A., aveva rifiutato un atto del suo ufficio, che per ragioni di sanità doveva essere compiuto senza ritardo essendo egli di turno di reperibilità, comunicando telefonicamente, a chi lo aveva chiamato, di avere un guasto alla propria vettura, così sottraendosi alla richiesta di urgenza che gli era stata rivolta per recarsi in ospedale per l’accompagnamento, con il personale del 118, di un paziente che si trovava in gravi condizioni di salute.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale per l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, non è sufficiente che l’imputato abbia offerto una somma di danaro alla persona offesa e che questa l’abbia accettata, ma è necessario che la somma offerta sia ritenuta adeguata dal giudice di merito, il cui giudizio, se congruamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità.

 

Cassazione penale sez. VI, 05/03/2019, (ud. 05/03/2019, dep. 27/03/2019), n.13411

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Messina riformava parzialmente la pronuncia di primo grado del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della stessa città del 21/02/2017, revocando le statuizioni civili, e confermava nel resto la medesima pronuncia con la quale C.G. e L.G., dirigenti medici degli ospedali riuniti “(OMISSIS)” di (OMISSIS), rispettivamente il primo del reparto di ostetricia e ginecologia, il secondo di quello di anestesia e rianimazione, erano stati condannati alla pena di giustizia in relazione ai delitti loro ascritti in concorso di cui all’art. 81 cpv. c.p., artt. 110 e 317 c.p. (capi d’imputazione A) e D), art. 81 cpv. c.p., artt. 110 e 61 c.p., n. 2 e art. 314 c.p. (capo B), art. 81 cpv. c.p. e art. 110 c.p., L. n. 194 del 1978, art. 19, (capi C) ed E), in questa secondo caso nella forma del tentativo); il solo C. anche in relazione ai delitti di cui agli artt. 56 e 317 c.p. (capo F) e art. 640 c.p., comma 2, n. 1, (capo G); il L. anche al reato di cui all’art. 61 c.p., n. 2 e art. 328 c.p. (capo H).

In particolare, la Corte territoriale rilevava come, riconosciuta ai prevenuti la qualifica di pubblico ufficiale ovvero di incaricato di pubblico servizio, le carte del processo avessero dimostrato la fondatezza delle ipotesi accusatorie in base alle quali poteva dirsi accertato che, tra il (OMISSIS), i due imputati avevano costretto quattro donne in stato di gravidanza ( L.G.C., S.S., Ci.Pa. e F.I.N.) a dare o promettere loro denaro e a sottoporsi a interventi illegali di interruzione della gravidanza presso lo studio privato del C. – struttura non abilitata, privi dei requisiti di legge, dunque pericolosa per la salute fisica e psichica di quelle pazienti facendo apparire falsamente come difficoltoso o impraticabile l’iter della procedura di interruzione della gravidanza in una struttura pubblica, e proponendo loro, come unica soluzione per poter ottenere l’aborto in tempi brevi e nei termini di legge, l’esecuzione di quell’intervento nel predetto studio privato; che analoga iniziativa delittuosa era stata attuata, tra il (OMISSIS), dai due medici nei riguardi di altra donna incinta, A.F., costretta a versare la somma di 1.200 Euro, per un intervento di interruzione della gravidanza che, però, non era stato eseguito in quanto la predetta non si era presentata presso lo studio ove i medici la stavano attendendo; che era stato comprovato che i due sanitari, per consumare i suddetti delitti, si erano anche appropriati di una cassetta di strumenti chirurgici e di farmaci destinati alle sole strutture ospedaliere pubbliche; che un tentativo di concussione era stato posto in essere, il (OMISSIS), sempre con le medesime modalità, ai danni della paziente P.V., dal solo C., il quale, fino all'(OMISSIS), aveva anche truffato l’ente pubblico gestore dell’ospedale ove lavorava, percependo ogni mese l’indennità di esclusiva, avendo omesso di segnalare, e così inducendo in errore l’ente datore di lavoro, che egli esercitava la libera professione nel suo studio privato; e ancora, che il L., il (OMISSIS), cioè lo stesso giorno in cui doveva recarsi nello studio del C. per il programmato intervento sulla A., aveva rifiutato un atto del suo ufficio, che per ragioni di sanità doveva essere compiuto senza ritardo essendo egli di turno di reperibilità, comunicando telefonicamente, a chi lo aveva chiamato, di avere un guasto alla propria vettura, così sottraendosi alla richiesta di urgenza che gli era stata rivolta per recarsi in ospedale per l’accompagnamento, con il personale del 118, di un paziente che si trovava in gravi condizioni di salute.

Aggiungeva la Corte siciliana come fossero infondate le censure formulate dai due imputati contro la sentenza del primo giudice, ma che le statuizioni civili ivi contenute andassero revocate per l’assenza di prova in ordine al pregiudizio asseritamente patito dalle associazioni che si erano costituite parti civili.

  1. Avverso tale sentenza hanno presentato ricorso entrambi gli imputati, con distinti atti sottoscritti dall’avv. Nicola Giacobbe per il C. e dall’avv. Alberto Gullino, anche per l’avv. Franco Coppi, per il L.. In ognuno dei due atti sono stati dedotti sette motivi – in parte comuni e, dunque, esaminabili congiuntamente – che possono essere così sintetizzati a mente dell’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 357 e 358 c.p., nonchè vizio di motivazione su medesimi punti, anche per mancata risposta ai motivi dell’appello (primo motivo ric. C. e primo motivo ric. L.), per avere la Corte di appello erroneamente attribuito agli imputati la qualifica di pubblico ufficiale, per il sol fatto di essere dirigenti medici del locale ospedale pubblico e non obiettori di coscienza ai sensi della L. n. 194 del 1978, benchè il C. avesse ricevuto le pazienti L.G., C., F. e S. nel suo studio privato, dunque nonostante che i due prevenuti non avessero concorso alla formazione o alla manifestazione della volontà dell’ente pubblico, nè avessero agito come incaricati di un pubblico servizio, ma operato, secondo l’ipotesi accusatoria, come privati (avendo al più compiuto una attività illecita ai sensi della predetta L. del 1978) e ricevuto in tale veste la dazione o l’offerta di denaro.

2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 314,357 e 358 c.p., e mancanza di motivazione (secondo motivo ric. C.), per avere la Corte messinese omesso di verificare quale qualifica avesse rivestito il C. in relazione a ciascuno degli episodi di concussione ascrittigli, in specie con riferimento a quelli contestati come commessi ai danni delle pazienti P. e A., le quali, prima di contattare l’imputato, avevano già avviato la procedura legale di interruzione della gravidanza.

2.3. Violazione di legge, in relazione a tutte le norme incriminatrici contestate e all’art. 530 c.p.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità (primo e terzo motivo ric. L.), per avere la Corte territoriale, pure omettendo di rispondere alle doglianze formulate con l’atto di appello, ingiustificatamente ritenuto il L. concorrente nella commissione di quegli illeciti, desumendo dalla consapevolezza e volontà delle pratiche abortive, mai negate dal prevenuto, la consapevolezza e volontà delle modalità di “reclutamento” delle gestanti, riferibili, invece, in via esclusiva al C. (come pure comprovato dal tenore di alcune specifiche conversazioni intercettate durante le indagini, da cui sarebbe stato doveroso evincere che il C. si era ogni volta rivolto al L. solo dopo raggiunto l’intesa con le pazienti).

2.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 317 e 323 c.p., L. n. 194 del 1978, artt. 5, 8, 14 e 19, art. 530 c.p.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità (terzo motivo ric. C.; primo e secondo motivo ric. L.), per avere la Corte distrettuale mancato di rispondere alle censure formulate con l’appello ovvero per avere replicato in maniera contraddittoria, in ordine alla contestata configurabilità dei delitti oggetto di addebito, nonostante le carte del processo avessero provato che il C. aveva comunicato alle pazienti che era ben possibile effettuare l’interruzione di gravidanza nella struttura pubblica con una procedura di urgenza, che lo stesso non aveva esercitato alcun “metus” sulle donne, che, anzi, si erano rivolte a lui proprio per ottenere, a pagamento, una soluzione rapida al loro “problema”, anche se contraria alla legge.

2.5. Violazione di legge, in relazione agli artt. 317,640 e 61 c.p., n. 9, art. 530 c.p.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità (quarto motivo ric. C.), per avere la Corte di merito disatteso la richiesta difensiva di riqualificare i fatti contestati in termini di truffa, eventualmente aggravata, e non di concussione, posto che il C., lungi dall’aver usato minaccia o sopraffazione nei riguardi delle pazienti, avrebbe al più tenuto nei confronti delle stesse una condotta ingannatoria, prospettando loro inesistenti difficoltà o impraticabilità dell’iter legale di interruzione di gravidanza, ovvero indicando loro, come unica soluzione per ottenere un aborto in tempi brevi, quella di sottoporsi a un intervento nello studio privato.

2.6. Violazione di legge, in relazione agli artt. 317 e 319 quater c.p., L. n. 194 del 1978, art. 19, e vizio di motivazione, (quarto motivo ric. L.), per avere la Corte del territorio omesso di considerare la possibilità di riqualificare le condotte contestate in termini non di concussione, ma di induzione indebita, e ciò soprattutto per l’atteggiamento ingannatorio che, secondo l’ipotesi accusatoria, sarebbe stato tenuto dagli agenti.

2.7. Violazione di legge, in relazione agli artt. 314,323,624 e 625 c.p., art. 530 c.p.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità (quinto motivo ric. C. e quinto motivo ric. L.), per avere la Corte di appello erroneamente confermato la condanna degli imputati in relazione al delitto loro ascritto al capo B), laddove le emergenze avevano dimostrato al più un’attività di sottrazione clandestina di alcuni beni, peraltro di inesistente rilievo economico intrinseco (circostanza, quest’ultima, che avrebbe potuto permettere di ritenere integrati, se del caso, gli estremi del diverso reato di abuso di ufficio).

2.8. Violazione di legge, in relazione agli artt. 640 e 61 c.p., n. 4, art. 530 c.p.p., e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità (sesto motivo ric. C.), per avere la Corte messinese omesso di rispondere alla censura formulata con l’appello in relazione al reato del capo G), per il quale l’imputato non avrebbe usato alcun artificio o raggiro, ma al più violato una clausola civilistica del contratto che lo legava all’azienda ospedaliera.

2.9. Violazione di legge, in relazione all’art. 328 c.p. e art. 530 c.p.p. e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità (sesto motivo ric. L.), per avere la Corte territoriale omesso di confrontarsi con le censure difensive alla sentenza di primo grado, con le quali era stato evidenziato che la chiamata ricevuta dal L. (peraltro, in un giorno in cui lo stesso era stato realmente impedito per il guasto della sua vettura) era stata meramente informativa e non vi era stato, anche sulla base dei protocolli medici vigenti in materia, alcun suo obbligo giuridico di intervento.

2.10. Violazione di legge, in relazione all’art. 62 c.p., n. 6 e art. 133 c.p., artt. 533 e 535 c.p.p., (settimo motivo ric. C. e settimo motivo ric. L.), per avere la Corte siciliana ingiustificatamente negato ai due imputati il riconoscimento dell’attenuante dell’avvenuto risarcimento dei danni, pur in presenza di offerte congrue alle persone offese nonchè di concordate transazioni pienamente soddisfacente per le ragioni dell’ente ospedaliero, intese il cui contenuto sarebbero stato anche travisato; e per avere disatteso le sollecitazioni difensive finalizzate ad ottenere una riduzione delle pene inflitte, sino al limite edittale minimo, in considerazione della peculiarità delle vicende oggetto del processo e della personalità degli imputati.

  1. Ritiene la Corte che i ricorsi vadano rigettati.

3.1. Il primo e il secondo motivo del ricorso del C., nonchè il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso del L. – esaminabili congiuntamente per la loro stretta connessione – sono infondati.

3.1.1. E’ noto come la qualifica di pubblico ufficiale vada riconosciuta a colui che, indipendentemente dal rapporto di dipendenza da un ente pubblico svolge una delle tre attività elencate dall’art. 357 c.p., comma 1, ovvero esercita, a norma del comma 2 articolo cit., un’attività disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti amministrativi, caratterizzata dalla formazione o manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, oppure dall’esercizio di poteri autoritativi o certificativi; e, laddove manchino tali elementi tipici della potestà amministrativa, come possa essere riconosciuta, a mente del successivo art. 358 c.p., la qualifica di incaricato di un pubblico servizio se l’agente esercita una pubblica funzione (escluse le mansioni d’ordine o le prestazioni materiali) intesa come attività funzionale alla realizzazione di uno o più specifici interessi pubblici, purchè vi sia una norma, legislativa o di rango inferiore, che le attribuisca quella rilevanza pubblica (anche indipendentemente dal regime pubblicistico o privatistico della relativa disciplina generale di operatività dell’ente di riferimento).

Premesso che la questione di diritto è stata posta negli atti di impugnazione esclusivamente con riferimento ai contestati delitti di concussione, consumati o tentati, va detto che agli appena esposti, lineari, criteri ermeneutici la Corte di appello di Messina si è uniformata nel momento in cui ha evidenziato che gli anzidetti reati erano stati commessi dagli imputati nella loro veste di dirigenti medici di un nosocomio pubblico ed in rapporto di dipendenza con un ente pubblico, e che il C. si era, altresì, relazionato con le pazienti nella sua specifica veste di medico di quell’ospedale cui, come non obiettore di coscienza, era stato affidato l’esercizio dei compiti, di evidente rilevanza pubblicistica, previsti e disciplinati dalla L. del 1978 sulle interruzioni di gravidanza.

In tale ottica – ha sottolineato la Corte di appello – doveva considerarsi circostanza irrilevante il fatto che il C. avesse ricevuto le pazienti nel suo studio privato, in quanto egli aveva un rapporto di esclusiva con l’ente pubblico con cui lavorava e, dunque, indipendentemente dal luogo ove erano avvenuti gli incontri e dal formale avvio di una corretta procedura amministrativa (che, in alcuni casi, vi era pure stata), a lui le donne in stato di gravidanza si erano rivolte proprio per la funzione di assistenza che egli avrebbe potuto (e dovuto) esercitare a norma della L. n. 194 del 1978: tant’è che le vittime, consapevoli del ruolo e delle funzioni del medico cui si erano indirizzate (medico che era uno dei due soli sanitari non obiettori del “(OMISSIS)” che erano stati abilitati ad attuare il protocollo per le interruzioni di gravidanza), a lui si erano inizialmente rivolte non per chiedere un “aborto clandestino”, ma per conoscere le condizioni per ottenere nella struttura ospedaliera una interruzione della gravidanza con le procedure di urgenza previste dalla normativa pubblicistica dettata nella materia.

D’altro canto – ha aggiunto la Corte territoriale, con una motivazione nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità – la “pressione” esercitata dal C. sulle donne, in tanto poteva avere una efficacia in quanto proveniva da un soggetto che stava agendo non come soggetto privato, bensì come medico di quel nosocomio pubblico, cui le stesse avevano domandato informazioni e chiarimenti circa la possibilità di intraprendere o proseguire il percorso, previsto dalla più volte citata disciplina legislativa a tutela della loro salute, per giungere alla interruzione della gravidanza con le cautele che solo una struttura pubblica avrebbe potuto loro garantire.

Sotto questo punto di vista, sono prive di pregio le doglianze mosse dalla difesa in ordine ad una asserita violazione di legge, posto che la decisione dei giudici di merito appare corretta e coerente con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità (si veda, ad esempio, Sez. 2, n. 12736 del 26/02/2014, P.M. in proc. Zanola, Rv. 258623) che ha ritenuto sussistente il delitto di concussione, e non anche quello di estorsione aggravata commesso dal privato, laddove la condotta costrittiva posta in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio si sia concretizzata nel compimento di un atto o di un comportamento del proprio ufficio, strumentalmente piegato per perseguire illegittimi fini personali: situazione riconoscibile nelle iniziative del C. il quale, indipendentemente dal fatto di aver ricevuto le persone offese nel proprio studio privato, aveva posto in essere quelle condotte costrittive appunto abusando della sua qualità di medico dell’ospedale pubblico incaricato di gestire il protocollo delle interruzioni di gravidanza, dunque ponendo in essere un’azione illecita strettamente “interconnessa” (come si legge nella motivazione della sentenza gravata) con le mansioni pubbliche affidategli dall’ente di riferimento, e non anche un’azione solo occasionalmente collegabile con quella sua funzione pubblicistica.

Nè va trascurato – pur premettendo che la questione posta nei ricorsi non sembra avere il carattere della decisività, dato che, per quanto esposto, gli imputati avevano agito, quanto meno, come incaricati di un pubblico servizio che la qualifica di pubblico ufficiale, ai sensi del già menzionato art. 357 c.p., va riconosciuta non solo a colui che, con la sua attività, concorre a formare direttamente la volontà dello Stato o degli altri enti pubblici, ma anche a chi è chiamato a svolgere compiti aventi – come nella fattispecie è accaduto – carattere accessorio o sussidiario ai fini istituzionali degli enti pubblici (in questo senso Sez. 6, n. 21088 del 10/02/2004, Micheletti e altro, Rv. 228871).

3.1.2. Quanto alla posizione del L., appare condivisibile, perchè basata su un procedimento di accertamento probatorio indiziario privo di incongruenze o di cesure di illogicità, l’argomentazione adottata dalla Corte di appello di Messina, la quale lo aveva giudicato concorrente nella commissione dei reati concussivi direttamente posti in essere dal C. nei riguardi delle singole pazienti: e ciò non perchè – come peraltro dallo stesso confessato – egli avesse accettato di collaborare nella esecuzione di singoli interventi di aborto clandestino all’interno di una struttura privata non abilitata, ma perchè, nella sua indispensabile veste di anestesista, aveva garantito al C. la piena e pronta disponibilità per eseguire quegli interventi di interruzione della gravidanza; disponibilità di cui le vittime – secondo quanto pacificamente ricostruito dai giudici di merito – erano state poste a conoscenza, e che, proprio per la veste ricoperta di primario del reparto di anestesia e rianimazione di quello stesso nosocomio pubblico nel quale lavorava il C., dove questi avrebbe dovuto eseguire le interruzioni di gravidanza, era logicamente collegabile alla consapevolezza delle iniziative che il collega poneva in essere nei riguardi delle pazienti per costringerle ad accettare un intervento eseguito in tempi brevi ma con elevati rischi per la salute, anzichè una operazione in una struttura pubblica nel rispetto della normativa vigente in materia.

Nè va dimenticato che il C. (che in una telefonata intercettata, nel programmare l’ennesimo intervento nel suo studio, aveva rassicurato l’amico L. che “lavoravano al solito con le cose”, così riferendosi alla loro comune iniziativa; e che in altra conversazione captata aveva concordato con il L. la “pressione” che, per costringerla ad una anticipazione dell’intervento, si sarebbe dovuta esercitare su una paziente, che non era neppure sicuro fosse in cinta) aveva espressamente riferito alle pazienti che la somma loro richiesta era destinata anche a remunerare l’anestesista, il quale aveva talvolta presenziato alla consegna del denaro in contanti da parte delle donne, nella circostanza diviso tra i due medici.

Non va neppure dimenticato che alcune captazioni eseguite dagli inquirenti avevano confermato come i due odierni ricorrenti avessero concordato preventivamente la somma da chiedere a ciascuna paziente ed avessero condiviso la intenzione di spostare quell’ambulatorio privato in un altro immobile, più vicino a dei “giardinetti” dove verosimilmente essi avrebbero potuto più agevolmente disfarsi dei “rifiuti” derivanti dalla esecuzione degli aborti clandestini (v. pagg. 48-49 sent. primo grado).

Seguendo tale impostazione, va esclusa la fondatezza della censura difensiva circa una asserita violazione di legge, posto che la regula iuris vuole che il sindacato di legittimità sulla gravità, precisione e concordanza della prova indiziaria è limitato alla verifica della correttezza del ragionamento probatorio del giudice di merito, che deve fornire una ricostruzione non inficiata da manifeste illogicità e non fondata su base meramente congetturale o sostenuta da riferimenti palesemente inadeguati (in questo senso, tra le tante, Sez. 4, n. 48320 del 12/11/2009, Durante, Rv. 245880); e che, alla luce di tale criterio ermeneutico, è stato possibile rilevare come la sentenza impugnata sia stata sufficientemente motivata ed argomentata – sia sotto il profilo della congruità che sotto quello della logicità – sulle specifiche questioni devolute, quanto alla ricostruzione storica, nonchè alla scelta e alla valutazione degli elementi probatori utilizzati per l’affermazione di responsabilità a titolo di concorso anche del ricorrente L..

3.2. Il terzo e il quarto motivo del ricorso del C., nonchè il primo, il secondo ed il quarto motivo del ricorso del L. – esaminabili congiuntamente per la loro stretta connessione – sono pure privi di pregio.

3.2.1. Premesso che con gli atti di impugnazione non è stata posta in discussione la ricostruzione in fatto delle vicende, nè è stata lamenta alcuna contraddizione processuale tra gli argomenti motivazionali ed i fatti come dimostrati dagli atti del procedimento, va detto che i giudici di merito hanno fatto buon governo dei principi di diritto ripetutamente enunciati da questa Corte in ordine alle condizioni per ritenere configurabile il delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p., nonchè in ordine alle differenze esistenti sotto l’aspetto oggettivo tra tale fattispecie incriminatrice e quelle di induzione indebita o di truffa aggravata, di cui rispettivamente agli artt. 319 quater o 640 c.p..

In particolare, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato:

– per un verso, che il delitto di concussione, di cui all’art. 317 c.p. nel testo modificato dalla L. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno “contra ius” da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sè, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita; e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319 quater c.p., introdotto dalla medesima L. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario, il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perchè motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (così a partire da Sez. U, n. 12228/14 del 24/10/2013, Maldera e altri, Rv. 258470);

– per altro verso, che la distinzione tra il delitto di concussione e quello di truffa aggravata dalla qualità di pubblico ufficiale va individuata nel fatto che nella prima fattispecie il privato mantiene la consapevolezza di dare o promettere qualcosa di non dovuto, mentre nella seconda la vittima viene indotta in errore dal soggetto qualificato circa la doverosità delle somme oggetto di dazione o promessa, e la qualità di pubblico ufficiale concorre solo in via accessoria a condizionare la volontà del soggetto passivo (così, da ultimo, Sez. 6, n. 41317 del 15/07/2015, Rosatelli e altro, Rv. 265005).

Di tali criteri ermeneutici la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione, evidenziando, con riferimento agli episodi delittuosi del capo A), come le quattro donne in stato di gravidanza furono poste di fronte ad una sostanziale minaccia di un danno ingiusto, non conseguendo alcun vantaggio indebito, dunque di fronte ad una alternativa secca di subire il male minacciato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’indebito, alternativa prospettata in termini tali da finire di fatto per comprimere se non annullare del tutto la loro libertà di autodeterminazione. Ricordando che le gestanti, in stato di palese “vulnerabilità” dovuta al fatto che, per le più svariate ragioni, avevano deciso di interrompere la gravidanza, avevano subito una forma di coercizione morale nel momento in cui il C. (ed il L., nelle già esaminate forme di concorso) – al quale, è bene ribadirlo, le donne si erano rivolte proprio perchè era il medico dirigente che nel citato nosocomio pubblico aveva il compito di gestire il protocollo per le interruzioni della gravidanza a norma della L. n. 194 del 1978 – aveva posto le pazienti di fronte all’alternativa secca di un male ingiusto, consistente nel non poter beneficiare dei servizi di quella struttura pubblica ospedaliera (perchè, a dire del ginecologo, si sarebbe superato il prescritto termine di legge dei novanta giorni oppure non sarebbe stato possibile garantire alle donne una adeguata riservatezza) o di versargli la somma richiesta per interrompere la gravidanza nel suo studio privato, in una situazione di obiettiva pericolosità per la salute.

In particolare – al contrario di quanto sostenuto in alcuni passaggi dai difensori nel corso della loro discussione – risulta dalla motivazione che il C.:

– dopo averle fissato un appuntamento nel suo studio ed averla visitata in maniera approssimativa (“col dito e senza l’utilizzo di strumenti o di ecografi”), alla L.G., che, in uno “stato di prostazione”, perciò in una situazione di fragilità e debolezza psicologica, gli aveva domandato di poter eseguire l’intervento presso la struttura ospedaliera, aveva replicato che “era al limite col tempo e doveva sbrigarsi se voleva abortire”, dunque che non era possibile effettuare l’intervento in ospedale; il C. l’aveva così costretta a promettere la consegna di una somma di denaro, quantificata subito dopo la fine dell’operazione, in 300 Euro, che in contanti ella aveva consegnato al ginecologo alla presenza dell’altro medico, l’anestesista, che stava ancora “sistemando gli attrezzi”;

– analogamente alla S., per telefono, che gli aveva domandato di poter essere sottoposta ad una interruzione della gravidanza in ospedale, cosa per la quale la donna si era detta disposta anche a rinviare l’intervento al momento successivo ad un suo viaggio in (OMISSIS), aveva escluso di poter effettuare l’intervento nel suo ospedale, sostenendo che l’operazione non poteva essere rinviata in quanto “non c’era tempo” e disponibilità di posti letto (“… perchè in ospedale non riusciamo… non avremmo tempo… non c’è posto, capisci?”): dapprima pretendendo un importo tra 2.000 e 2.500 Euro, e poi accettando una somma di denaro inferiore a quella richiesta per “venire incontro” alla donna che, in difficoltà economica, si era vista costretta a vendere alcuni oggetti d’oro per poter versare l’importo domandatole (peraltro le captazioni eseguite dagli inquirenti avevano dimostrato che forse la S. non era neppure incinta e (che il C. e il L. avevano deciso di eseguire comunque quell’intervento, “facendo finta” che la donna si trovasse in gravidanza);

– al Cu., che, per conto della compagna C., gli aveva chiesto di poter effettuare quanto prima l’intervento in ospedale, in day hospital, cioè con un ricovero giornaliero, aveva risposto che “(era) molto difficile fare la “roba” in ospedale”, dove si “sarabbe dovuto fare tutto tramite computer” e che vi sarebbe state “lungaggini burocratiche”, costringendo così l’interlocutore ad incontrarsi di persona per “sbrigare la cosa diversamente” e ad accettare di effettuare a pagamento l’operazione di interruzione di gravidanza nel suo studio, cosa che, sulla base della intesa con il L., sarebbe poi avvenuta nel pomeriggio di tre giorni dopo;

– alla F., che a lui si era rivolta per il tramite dell’amica R.E. (che in precedenza significativamente aveva effettuato alcune interruzioni di gravidanza proprio con il C., ma in ospedale e sempre nel rispetto delle modalità prescritte dalla L. n. 194 del 1978) e che, sempre per mezzo dell’amica, aveva manifestato perplessità sulla idoneità dello studio privato come luogo per compiere siffatte operazioni, subito dopo averla visitata aveva replicato che era imminente la scadenza del termine per poter eseguire l’interruzione della gravidanza, che nella struttura pubblica, dove prestava servizio, non vi era disponibilità, e che l’unica maniera per poter compiere quell’intervento, “senza che i mariti o i compagni ne sapessero nulla”, era quella di farlo nel suo studio privato, dietro il versamento di 1.000 Euro.

Le quattro donne, dunque, non avevano accettato di promettere o di consegnare la somma di denaro loro rispettivamente richiesta, in quanto da loro dovuta, sulla base di una libera determinazione nè per effetto di una relazione contrattuale paritaria (sulla quale avrebbe potuto astrattamente incidere un meccanismo di formazione della volontà negoziale viziato da un’attività larvatamente ingannatoria della controparte), ma perchè vittime della pressione psicologica esercitata dal C. che, in ciascuno di quegli episodi, abusando nei termini indicati della sua qualità di medico dell’ospedale dove l’interruzione di gravidanza sarebbe stata effettuata gratuitamente e con le massime garanzie sanitarie, aveva rappresentato alle pazienti un male ingiusto, consistente in un danno alla loro salute e alla loro riservatezza, se non avessero accettato l’unica soluzione prospettata come praticabile, quella di sottoporsi ad un aborto clandestino nello studio dietro il pagamento di una somma di denaro evidentemente non dovuta.

In altri termini, i giudici di merito avevano correttamente escluso che le condotte accertate avessero integrato gli estremi del meno grave reato di induzione indebita, in quanto le donne in gravidanza non avevano subito una forma di blanda o tenue pressione morale, tale da consentire loro di conservare un margine di scelta, ma avevano patito da quei medici una forma di brutale limitazione della loro libertà di autodeterminazione, accettando di dare o di promettere una somma di denaro indebita solo per evitare il pregiudizio che era stato loro indicato. Così come i medesimi giudici avevano correttamente escluso che quelle iniziative potessero essere qualificate come altrettante forme di truffa aggravata, perchè le pazienti avevano sempre avuto e conservato la piena consapevolezza di dare o promettere somme non dovute: dazioni o promesse che erano state da loro effettuate sulla base di quella subdola prospettazione, compiuta dai medici abusando, in maniera determinante, dei doveri inerenti alla loro qualità di incaricati di un pubblico servizio, dell’esistenza di un contesto di difficoltà organizzative e di impedimenti burocratici, che era servita per dare forza alle loro pretese e non di certo a trarre in inganno le interlocutrici sulla non doverosità degli importi oggetto di dazione o promessa.

3.2.2. Un analogo condivisibile percorso motivazionale è stato seguito dalla Corte messinese per giustificare la condanna dei due imputati in relazione al delitto loro contestato al capo d’imputazione D), tenuto conto che le carte del processo avevano permesso di accertare che il medesimo modus operandi dei medici era stato usato nei riguardi della A.: la quale, dopo essersi rivolta una prima volta alla struttura ospedaliera per effettuare una interruzione della gravidanza ne(rispetto della normativa in materia, e, dopo un ripensamento, essere tornata nel nosocomio a qualche giorno dalla scadenza del termine dei novanta giorni stabilito da quella disciplina, invece che essere inserita in via d’urgenza e in sovrannumero nelle liste delle pazienti da sottoporre a quel tipo di interventi, era stata indirizza da una (compiacente) psicologa, in servizio in quel nosocomio pubblico, al C.: il quale, in occasione della visita, lungi dall’informare l’interlocutrice – come sarebbe stato per lui doveroso – della possibilità di derogare alle procedure ordinarie per effettuare comunque l’intervento in ospedale entro le due settimane successive, “aveva sfruttato” lo stato di difficoltà della donna prospettandole l’aborto clandestino nel suo studio come “unico rimedio”, dietro la promessa del versamento della somma di 1.200 Euro, indicata come il compenso necessario per remunerare l’anestesista; interruzione della gravidanza nello studio privato che poi non era stata effettuata dal C. e dal L. (perchè la A. era stata allettata delle indagini in corso dal personale della polizia giudiziaria), bensì significativamente dai sanitari di un altro ospedale pubblico, nel pieno rispetto della anzidetta normativa, cui la donna si era in seguito rivolta.

A conclusioni simili erano pervenuti i giudici di merito riguardo all’altro episodio delittuoso ascritto, nella forma del tentativo, al solo C. al capo F), in cui la donna incinta, P.V., dopo essersi rivolta al predetto imputato nella sua veste di medico ospedaliero ed aver avviato una regolare procedura per l’interruzione della gravidanza nelle forme previste dalla legge, aveva chiesto di poter anticipare i tempi dell’intervento al prevenuto che, in totale spregio dei suoi doveri e prospettando “problemi organizzativi”, in realtà inesistenti, le aveva risposto che l’unico modo per ottenere quella anticipazione sarebbe stato quello di sottoporsi ad un intervento nel suo studio privato, dietro il versamento di una somma di 1.200 Euro, poi ridotta a 750 Euro (asseritamente necessari per remunerare l’anestesista): somma che il C. aveva espressamente spiegato alla sua interlocutrice essere “non dovuta”, perchè connessa alla pratica di un aborto “clandestino” (anzi aggiungendo che altri, per siffatte operazioni, avrebbero chiesto anche importi superiori…), promessa che la paziente si era rifiutata di fare, lasciando così che la condotta illecita configurasse il delitto al solo stadio del tentativo.

3.2.3. Quanto ai lamentati vizi di motivazione, va detto che i ricorrenti hanno finito sostanzialmente per criticare il significato che la Corte di appello di Messina aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante l’istruttoria dibattimentale. E, tuttavia, bisogna rilevare come i ricorsi, lungi dal proporre un effettivo “travisamento delle prove”, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, sono stati presentati per sostenere, in pratica, una ipotesi di “travisamento dei fatti” oggetto di analisi, sollecitando un’inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente.

La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede, invece, per le ragioni innanzi esposte, una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità: apparato argomentativo che, per giunta, è ben possibile integrare con la motivazione della sentenza di primo grado, così da far confluire le due decisioni in un prodotto unico cui questo giudice di legittimità possa fare riferimento, tenuto conto che le due pronunce hanno utilizzato criteri omogenei e seguito un apparato logico argomentativo uniforme.

3.3. Il quinto e il sesto motivo del ricorso del C., nonchè il quinto e il sesto motivo del ricorso del L. sono inammissibili.

Rappresenta un pacifico orientamento nella giurisprudenza di legittimità quello secondo il quale è inammissibile per genericità il ricorso per cassazione, i cui motivi si limitino a pedissequamente replicare le medesime ragioni e gli stessi argomenti già illustrati in atti o memorie presentate al giudice a quo, in modo disancorato dalla motivazione del provvedimento impugnato, che quelle ragioni e argomenti abbia puntualmente disatteso, motivazione con la quale il ricorrente ometta del tutto dal confrontarsi (in questo senso, tra le molte, Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, P.M. in proc. Candita, Rv. 244181).

3.3.1. In applicazione di tale regula iuris bisogna constatare come, nella fattispecie, i ricorrenti abbiano riproposto, in modo alquanto indeterminato, gli stessi identici motivi che erano stati formulati con gli atti di appello, senza in alcun modo considerare ovvero senza confrontarsi con le ragioni che la Corte di merito aveva esposto per ritenere quei motivi infondati. Motivazione della sentenza gravata nella quale non è ravvisabile alcuna violazione di legge e con la quale, con argomentazioni complete e logicamente ineccepibili, i giudici a quibus avevano spiegato come le emergenze processuali avessero dimostrato con assoluta certezza – sulla base, oltre che delle intercettazioni telefoniche, anche dei sequestri eseguiti dalla polizia giudiziaria aventi ad oggetto la spazzatura lasciata fuori dallo studio ed i farmaci rinvenuti nell’immobile e nella vettura del L. – che i due imputati eseguivano gli interventi di aborto clandestino all’interno dello studio privato più volte menzionato, utilizzando una cassetta completa di attrezzatura medica, farmaci e materiale sanitario di più varia natura di cui gli stessi avevano la disponibilità diretta o indiretta in ragione delle funzioni di medici dirigenti delle due strutture ospedaliere pubbliche riunite di cui erano dipendenti (eloquente è il testo di quella captazione telefonica da cui era stato possibile evincere come fosse stato il C. ad indicare al L. il luogo dove avrebbe potuto prelevare i medicinali di cui essi avevano bisogno per l’ennesima operazione da eseguire nel contesto privato) e di cui si erano a più riprese appropriati per farne un uso in un contesto privato, senza essere affatto autorizzati a portarli fuori dal nosocomio: dunque causando un danno rilevante all’ente pubblico, non essendovi elemento alcuno – avevano puntualizzato i giudici di merito, con una valutazione in fatto non censurabile in questa sede per poter affermare che i beni oggetto di reiterata appropriazione fossero stati nel complesso di scarso valore economico.

Correttamente i giudici di merito avevano escluso che le accertate condotte potessero configurare un diverso e meno grave reato, in specie quello di cui all’art. 323 c.p., poichè è pacifico nella giurisprudenza regolatrice che integra il reato di peculato la condotta distrattiva del denaro o di altri beni che realizzi la sottrazione degli stessi alla destinazione pubblica e l’utilizzo per il soddisfacimento di interessi privatistici dell’agente, mentre è configurabile l’abuso d’ufficio solo quando si sia in presenza di una distrazione a profitto proprio che, tuttavia, si concretizzi in un uso indebito del bene che non ne comporti la perdita e la conseguente lesione patrimoniale a danno dell’ente cui appartiene (così, da ultimo, Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo e altri, Rv. 273783).

3.3.2. Anche in relazione al delitto contestato al solo C. al capo G) in termini di truffa aggravata, per avere il prevenuto tratto in inganno l’ente pubblico suo datore di lavoro omettendo di comunicare che egli svolgeva in maniera sistematica attività professionale nel suo studio privato, cosa che si era impegnato a non effettuare e che gli aveva permesso di trarre in inganno l’amministrazione pubblica che mensilmente gli aveva erogato uno stipendio maggiorato della c.d. indennità di esclusiva – il ricorrente ha riproposto la medesima doglianza formulata con l’atto di appello alla quale la Corte territoriale aveva risposto escludendo, con motivazione congrua e logicamente ineccepibile, che quella accertata potesse essere considerata un mero inadempimento civilistico e formulando una soluzione conforme al dettato normativo e alla esegesi che dello stesso è stato dato dalla Cassazione: essendo consolidato l’indirizzo per il quale, in materia di truffa contrattuale, anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere integra l’elemento oggettivo ai fini della configurabilità del reato di truffa, trattandosi di un raggiro idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe dato: reato che è configurabile non soltanto nella fase di conclusione del contratto, ma anche in quella della esecuzione cadenzata nel tempo allorquando una delle parti, nel contesto di un rapporto lecito, induca con il suo silenzio in errore l’altra parte, conseguendo un ingiusto profitto con altrui danno (in questo senso Sez. 6, n. 5579 del 03/04/1998, Perina, Rv. 210613).

3.3.3. Per quanto poi riguarda il delitto ascritto al L. al capo d’imputazione H), va confermato come i rilievi formulati al riguardo dal prevenuto si muovono nella prospettiva di accreditare una diversa lettura delle risultanze istruttorie e si risolvono, quindi, in non consentite censure in fatto all’iter argomentativo seguito dalla sentenza di merito, nella quale, peraltro, vi è puntuale risposta a detti rilievi, in tutto sovrapponibili a quelli già sottoposti all’attenzione della Corte territoriale. La quale ha avuto modo di affermare, con motivazione logicamente adeguata e con una rigorosa lettura delle emergenze processuali, come la mattina del (OMISSIS) il L., che si stava recando presso lo studio medico dell’amico C. per effettuare l’aborto clandestino sulla paziente A., aveva giustificato la sua impossibilità a recarsi in ospedale con un riferimento al guasto della sua vettura, così rifiutando di compiere un atto del suo ufficio sanitario che doveva essere espletato senza ritardo, avendo ricevuto la chiamata telefonica con la quale un collega di reparto (di cui il L. era il primario), informandolo che tutti gli altri anestesisti erano già impegnati in vari interventi, gli aveva chiesto di portarsi con urgenza presso il nosocomio in quanto il personale del 118 doveva trasportare un infartuato presso altra struttura ed aveva domandato la presenza nell’autoambulanza di un rianimatore. Corte di appello che aveva precisato come fosse irrilevante la questione in ordine alla competenza dei sanitari del 118 a chiedere o meno la presenza del rianimatore, tenuto conto che, a fronte di quel rifiuto, il trasporto del paziente infartuato era stato poi significativamente curato dal diverso personale del pronto soccorso dello stesso ospedale e che la polizia giudiziaria aveva accertato che, nel frattempo, il L. aveva aspettato il C. nei pressi dello studio dove dovevano eseguire l’illecita privata interruzione di gravidanza, passeggiando ed entrando disinvoltamente in un bar.

Nè è riconoscibile alcuna violazione di legge, essendo stata la decisione dei giudici di merito coerente all’orientamento nomofilattico di questa Corte secondo il quale integra il delitto di rifiuto di atti d’ufficio la condotta del sanitario che non aderisca alla richiesta di intervento urgente, dovendosi ritenere sindacabile dal giudice la discrezionale valutazione del sanitario sulla necessità di compiere o meno l’attività richiesta, al fine di accertare se la dichiarata indisponibilità costituisca un mero pretesto per giustificare l’inadempimento dei propri doveri (in questo senso, tra le molte, Sez. 6, n. 12143 del 11/02/2009, Bruno, Rv. 242922).

3.4. Manifestamente infondate sono, infine, le doglianze difensive formulate con gli ultimi rispettivi motivi dei due ricorsi.

3.4.1. Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale per l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, non è sufficiente che l’imputato abbia offerto una somma di danaro alla persona offesa e che questa l’abbia accettata, ma è necessario che la somma offerta sia ritenuta adeguata dal giudice di merito, il cui giudizio, se congruamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità.

La valutazione in fatto compiuta dalla Corte di appello di Messina, dunque, non è censurabile da questo Collegio, avendo i giudici a quibus spiegato, in maniera logicamente e congruamente ineccepibile, da un lato come le somme offerte alle vittime dei delitti di concussione, e dalla stesse nella maggior parte dei casi rifiutate, fossero del tutto inadeguate rispetto alla “gravità delle condotte poste in essere dai due medici che (avevano) messo a repentaglio l’incolumità delle pazienti, costrette a ricorrere a pagamento ad una prestazione illecita pur potendo, invece, usufruire di un diritto riconosciuto dalla legge di operare una scelta, gratuitamente, in ambiente protetto e nel rispetto delle garanzie poste a tutela del bene primario quale la salute”; e come da altro lato, fosse del tutto effimero l’accordo raggiunto dai due imputati con l’ente ospedaliero per svolgere, a titolo risarcitorio dei danni (peraltro senza alcun riferimento ai danni non patrimoniali), attività lavorativa gratuita nel nosocomio fuori dall’orario di servizio, perchè intesa di dubbia eseguibilità sotto l’aspetto civilistico (essendo discutibile che un pubblico dipendente possa rinunciare a diritti futuri e indisponibili ovvero che una transazione possa avere ad oggetto diritti sulla cui spettanza non vi sia alcuna incertezza) e, comunque, accordo la cui esecuzione sarebbe dipesa da una circostanza incerta, quale doveva considerarsi la prosecuzione del rapporto di lavoro dei due sanitari con quella amministrazione pubblica.

3.4.2. Da ultimo i ricorrenti hanno preteso che, in questa sede di legittimità, si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali i giudici di merito hanno esercitato il potere discrezionale loro concesso dall’ordinamento ai fini della determinazione della pena finale da infliggere loro. Esercizio che deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’esistenza dei presupposti di applicazione delle relative norme di riferimento.

Nella specie del tutto legittimamente la Corte di appello ha ritenuto di negare al C. e al L. una riduzione delle pene irrogate dal giudice di prime cure, avendo – con motivazione completa e congrua – sottolineato che le condotte accertate erano state obiettivamente gravi, caratterizzate dalla spregiudicatezza dei responsabili e dalla prolungata lesione nel tempo degli interessi giuridici protetti.

  1. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento.

Alla cancelleria vanno demandati gli adempimenti comunicativi previsti dalla legge.

Va disposto l’oscuramento dei dati identificativi a tutela della riservatezza delle persone offese.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Manda alla cancelleria per le comunicazioni di cui all’art. 154 ter disp. att. c.p.p..

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2019

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