va osservato che nel delitto di atti persecutori, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice; esso, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C, Rv. 260411).
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Nella specie, il tenore delle frasi (“ti faccio vedere io”) e il riferimento alla famiglia e alla città nella quale la donna viveva (come, in generale, l’intensità dei contatti non autorizzati e del tutto privi di giustificazione) non potevano avere altro significato se non quello di intimidire il destinatario, nella piena consapevolezza degli effetti che tali espressioni erano idonee a provocare.
Le superiori considerazioni, nell’illustrare i motivi della ritenuta configurazione del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. rappresentano, in termini privi di equivocità, anche la ragione della mancata, auspicata riqualificazione dei fatti nei termini di mere minacce o molestie
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Sentenza 7 novembre 2018 – 2 gennaio 2019, n. 61
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PALLA Stefano – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –
Dott. MORELLI Francesca – Consigliere –
Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere –
Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
K.S., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 30/10/2017 della CORTE APPELLO di MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;
udito il Procuratore Generale, dott. FERDINANDO LIGNOLA, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza del 30/10/2017 la Corte d’appello di Milano ha confermato la decisione di primo grado, quanto alla affermazione di responsabilità di K.S., in relazione al reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. e, in riforma della medesima decisione, disapplicata la recidiva, ha ridotto la pena ad otto mesi di reclusione.
2. Nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per cassazione, affidato ai seguenti motivi.
2.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento materiale del reato di atti persecutori. Rileva il ricorrente: a) che la condotta descritta dai giudici di merito si era limitata all’invio di dodici messaggi attraverso whatsapp e a due telefonate, ossia a comportamenti privi di qualunque idoneità lesiva; b) che la Corte d’appello non aveva fornito risposta alla censura relativa alla non rilevabilità di continue intrusioni fisiche nella vita privata della persona offesa alle quali aveva fatto riferimento il Tribunale.
2.2. Con il secondo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, per avere la Corte territoriale omesso di riqualificare i fatti in termini di semplici episodi di molestie o minacce, alla luce della limitata condotta posta in essere e della insussistenza dell’elemento psicologico nonchè dello stesso evento di danno.
3. I due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente, per la loro stretta connessione logica.
Il ricorrente insiste nel sottolineare la breve durata della sua condotta, trascurando di confrontarsi col fatto che, a seguito della denuncia della querela del 24/05/2016 e delle successive integrazioni del 30/05 e del 31/05/2016, all’imputato è stata applicata, in data 06/06/2016, la misura degli arresti domiciliari. Ma soprattutto, al di là dell’arco temporale in cui la vicenda si è sviluppata, il ricorso non si confronta, se non in termini di assoluta genericità, con la specificità delle condotte attribuite al K. – in particolare dalla sentenza di primo grado, cui quella impugnata rinvia – nei confronti della professionista incaricata dal Pubblico Ministero, in altro procedimento, di effettuare una consulenza psicologica sulla figlia dell’imputato, i cui risultati non erano stati apprezzati da quest’ultimo.
In particolare, vengono in questione, in primo luogo due telefonate: una da parte dell’utenza dell’imputato, rimasta senza risposta, cui aveva fatto seguito la telefonata della persona offesa per capire chi fosse il suo interlocutore; un’altra effettuata da parte di soggetto rimasto non identificato, ma, secondo quanto accertato in termini che il ricorso non contesta, certamente su ispirazione dello stesso K. (il quale ha ammesso di essere stato presente durante la conversazione), nella quale il chiamante, oltre ad accusare la persona offesa di aver mal giudicato, nella relazione di consulenza tecnica, il K., aggiungeva che quest’ultimo conosceva la famiglia della dottoressa e la città nella quale viveva, insistendo per un incontro di persona.
Vi sono poi i vari sms concentrati nel tempo, in particolare ben dodici dalle 15,38 alle 17,07, del 24/05/2016, con sei fotografie e tre video, mentre la dottoressa si trovava presso i carabinieri per formalizzare la querela.
Sono queste le gravi intrusioni alle quali la sentenza di primo grado – ma non quella impugnata – aggiunge l’attributo di fisicità, per sottolinearne la penetrante invasione della sfera intima della persona offesa e non certo per attribuire al ricorrente condotte di carattere fisico.
E l’intensità di sviluppo dell’azione criminosa rende del tutto ragionevole il giudizio di attendibilità espresso dai giudici di merito, quanto alle dichiarazioni della persona offesa, la quale ha riferito di avere provvisoriamente pernottato in altra abitazione, sospendendo la propria attività professionale, nel timore che K. potesse raggiungerla in studio.
Ciò integra con sicurezza l’evento di danno richiesto dalla norma.
Infine, va osservato che nel delitto di atti persecutori, l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice; esso, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C, Rv. 260411).
Nella specie, il tenore delle frasi (“ti faccio vedere io”) e il riferimento alla famiglia e alla città nella quale la donna viveva (come, in generale, l’intensità dei contatti non autorizzati e del tutto privi di giustificazione) non potevano avere altro significato se non quello di intimidire il destinatario, nella piena consapevolezza degli effetti che tali espressioni erano idonee a provocare.
Le superiori considerazioni, nell’illustrare i motivi della ritenuta configurazione del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. rappresentano, in termini privi di equivocità, anche la ragione della mancata, auspicata riqualificazione dei fatti nei termini di mere minacce o molestie.
4. Alla pronuncia di inammissibilità consegue ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in Euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.
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