8 PUNTI CONVIVENZA  MORE UXORIO COPPIE DI FATTO BOLOGNA  7 SPOGLIO casa VIOLENTO E CLANDESTINO DELL’ABITAZIONE

  7 SPOGLIO casa VIOLENTO E CLANDESTINO DELL’ABITAZIONE

Una serie di commenti a sentenze di avvocato a Bologna Sergio Armaroli per dare una prima idea degli orientamenti di giurisprudenza, si tratta di articoli sulle successioni, sulla separazione e divorzio, e sul danno alla persona da incidente  stradale a responsabilita' medica.
Una serie di commenti a sentenze di avvocato a Bologna Sergio Armaroli per dare una prima idea degli orientamenti di giurisprudenza,
si tratta di articoli sulle successioni, sulla separazione e divorzio, e sul danno alla persona da incidente  stradale a responsabilita’ medica.

8 PUNTI CONVIVENZA  MORE UXORIO COPPIE DI FATTO BOLOGNA  7 SPOGLIO VIOLENTO E CLANDESTINO DELL’ABITAZIONE LEGITTIMA L’AZIONE DI SPOGLIO

AVVOCATO FAMIGLIA DI FATTO BOLOGNA La riforma ha esteso diritti e obblighi ai conviventi :

  • esattamente i conviventi sono tenuti a rispettare

    – l’obbligo di coabitazione,

    – l’obbligo di reciproca assistenza morale ed economica,

    – il dovere di contribuire alle esigenze della famiglia.

  • NON VI E’ L’OBBLIGO DI FEDELTA’ MA DEL RESTO L’OBBLIGO DI FEDELTA’  SI E’ AFFIEVOLITO ANCHE NEL MATRIMONIO

La convivenza oggi determina  dei diritti diritti in capo ai conviventi

– il diritto al subentro nel rapporto di locazione;
– il diritto di visita e di accesso alle informazioni sanitarie personali, in caso di malattia o di ricovero del convivente.

8 PUNTI CONVIVENZA  MORE UXORIO COPPIE DI FATTO BOLOGNA  7 SPOGLIO VIOLENTO E CLANDESTINO DELL’ABITAZIONE

AVVOCATO FAMIGLIA DI FATTO BOLOGNA la convivenza “more uxorio”, quale formazione sociale che dà vita ad un consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità e tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Pertanto l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio.

Nel precedente testé richiamato si è dato conto della diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana (ma liberamente e in ogni istante revocabile) di ciascuna delle parti, rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato, invece da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio; si è tuttavia osservato che questa distinzione non comporta che il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, nei casi in cui l’unione, pur libera, che abbia assunto – per durata, stabilità, esclusività e contribuzione – i caratteri di comunità familiare; pertanto in questi casi, anche dopo la dissoluzione del rapporto di coppia così stabilizzato (nel caso qui in esame per la morte del convivente) non è consentito al convivente proprietario (nel caso qui in esame all’erede che subentra nell’identica posizione) ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare e di concedere un termine congruo per reperire altra sistemazione.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE II CIVILE

Sentenza 10 luglio – 15 settembre 2014, n. 19423

(Presidente Bursese – Relatore Proto)

Svolgimento del processo

Con ricorso del 24/3/2003 S.I. chiedeva la reintegrazione nel possesso di un appartamento e relative pertinenze essendone stata privata da R.L. che vi si era introdotto clandestinamente impedendole l’accesso.

La ricorrente esponeva di essersi unita in matrimonio religioso con dispensa da trascrizione, sin dal 1977 con D.V.D., il quale, deceduto il (omissis), l’aveva istituita usufruttuaria dell’appartamento suddetto che costituiva la loro casa ove convivevano come marito e moglie.

Nella fase a cognizione sommaria il giudice accoglieva il ricorso e successivamente il Collegio rigettava il reclamo del resistente.

Nella fase di merito, espletata l’istruttoria, il Tribunale con sentenza del 17/4/2004 accoglieva la domanda possessoria e ordinava a R.L. di reintegrare S.I. nel possesso.

R. proponeva appello che era rigettato dalla Corte di Appello di Torino con sentenza del 22/2/2007.

La Corte territoriale rilevava:

– che la ricorrente, in quanto convivente more uxorio e quindi detentore qualificato era legittimata ad agire con l’azione di spoglio;

– che era irrilevante, ai fini di precludere l’esercizio dell’azione, la qualità di erede del resistente, che non era possessore quando era in vita il de cuius, ma solo ospite per il rapporto di parentela con il nonno D.V.D.;

– che inoltre il resistente non aveva ragione di far valere la sua qualità di erede in quanto il thema decidendum era limitato al compossesso tra le parti come dedotto dal R.;

– che non era decorso l’anno dal sofferto spoglio;

– che la ricorrente non aveva volontariamente abbandonato l’alloggio, ma viveva altrove proprio a causa dello spoglio subito.

R.L. ha proposto ricorso affidato a due motivi.

S.I. è rimasta intimata.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione e la violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 100, 112, 342 c.p.c. e 1140, 1168 e 1170 c.c. sostenendo che la S., in quanto convivente more uxorio, non sarebbe stata legittimata ad agire con l’azione possessoria nei suoi confronti perché egli era erede del proprietario convivente che la ospitava e, comunque, compossessore, essendo succeduto nel possesso; aggiunge che la S. avrebbe avuto altrove la propria residenza.Il ricorrente, formulando i quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. ora abrogato, ma applicabile ratione temporis, chiede:– se il convivente more uxorio sia o meno legittimato all’azione possessoria;– se tale azione possa essere esercitata nei confronti dell’altro convivente ospitante e nei confronti degli eredi di costui.1.1 Il motivo, con riferimento al vizio di motivazione è inammissibile per l’assoluta mancanza del momento di sintesi.Le censure trascurano che, nel vigore dell’art. 366-bis c.p.c., il motivo di ricorso per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n.5, c.p.c., deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione e pertanto la relativa censura deve essere accompagnata da un momento di sintesi che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità; il motivo, cioè, deve contenere – a pena d’inammissibilità – una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass. S.U. 20/05/2010 n. 12339Cass. 4/2/2008 n. 2652 Ord.; Cass. S.U. 1/10/2007 n. 20603).Il motivo, con riferimento alla violazione delle norme indicate nell’epigrafe del motivo e nell’ambito delimitato dai quesiti di diritto, è infondato perché le ragioni giuridiche addotte a sostegno del motivo trovano confutazione, in diritto, nella giurisprudenza di questa Corte; ai quesiti deve quindi rispondersi affermando che il convivente more uxorio è legittimato all’azione possessoria e che tale azione possa essere esercitata nei confronti dell’altro convivente ospitante e nei confronti degli eredi di costui.Questa Corte, infatti, già con sentenza 21/3/2013 n. 7214ha affermato che la convivenza “more uxorio”, quale formazione sociale che dà vita ad un consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità e tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Pertanto l’estromissione violenta o clandestina dall’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio.Nel precedente testé richiamato si è dato conto della diversità della convivenza di fatto, fondata sull’affectio quotidiana (ma liberamente e in ogni istante revocabile) di ciascuna delle parti, rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato, invece da stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono soltanto dal matrimonio; si è tuttavia osservato che questa distinzione non comporta che il rapporto del soggetto con la casa destinata ad abitazione comune, ma di proprietà dell’altro convivente, si fondi su un titolo giuridicamente irrilevante quale l’ospitalità, anziché sul negozio a contenuto personale alla base della scelta di vivere insieme e di instaurare un consorzio familiare, nei casi in cui l’unione, pur libera, che abbia assunto – per durata, stabilità, esclusività e contribuzione – i caratteri di comunità familiare; pertanto in questi casi, anche dopo la dissoluzione del rapporto di coppia così stabilizzato (nel caso qui in esame per la morte del convivente) non è consentito al convivente proprietario (nel caso qui in esame all’erede che subentra nell’identica posizione) ricorrere alle vie di fatto per estromettere l’altro dall’abitazione, perché il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che intenda recuperare, com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare e di concedere un termine congruo per reperire altra sistemazione.La legittimazione all’azione di spoglio da parte del convivente more uxorio è stata poi ritenuta applicabile anche qualora lo spoglio sia compiuto da un terzo nei confronti del convivente del detentore qualificato del bene

    L’azione è comunque esperibile anche nei confronti dell’erede del proprietario il quale, pur subentrando per fictio iuris nel possesso del de cuius non è legittimato ad estromettere dal possesso con violenza o clandestinità colui che non poteva esserne estromesso dal de cuius.Il ricorrente richiama inoltre un certificato di residenza secondo il quale la residenza della S. sarebbe in altro luogo; trattandosi di questione di fatto non può essere esaminata in questa sede di legittimità tenuto conto che nella sentenza impugnata sono stati evidenziati elementi idonei per la prova della relazione di fatto con l’immobile (v. pagg. 11 e 12 nei riferimenti al trasporto di effetti personali e alla presenza nell’alloggio dei mobili della convivente) e dell’inammissibilità per mancanza del momento di sintesi della censura di vizio di motivazione.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1146 c.c. e il vizio di motivazione.

    Il ricorrente sostiene:

    – che la Corte di Appello ha violato il principio dell’art. 1146 c.c. secondo il quale il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione;

    – che pertanto egli era succeduto nel medesimo possesso o compossesso del defunto D.V. e la Corte di Appello avrebbe dovuto rigettare la domanda possessoria per essere egli possessore o quanto meno compossessore dell’immobile;

    – che era contraddittoria, omessa o insufficiente la motivazione per la quale il thema decidendum doveva essere limitato all’accertamento dell’eventuale sussistenza della situazione di compossesso tra le parti, in quanto la situazione di compossesso era quella indicata negli atti difensivi di primo grado nei quali si invocava la qualità di erede e la successione nel possesso o compossesso.

    Il ricorrente, formulando i quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. applicabile ratione temporis, chiede:

    – se il possesso dell’autore si trasferisca o meno all’erede senza soluzione di continuità ed anche senza che l’erede abbia avuto il possesso del bene;

    – se l’erede può invocare i principi di cui all’art. 1146 comma II c.c. unicamente agli effetti dell’usucapione oppure anche, in via di azione o eccezione nelle azioni a tutela del possesso.

    2.1 Il motivo, con riferimento al vizio di motivazione è inammissibile per l’assoluta mancanza del momento di sintesi; sul punto si richiamano i precedenti giurisprudenziali e i principi già enunciati al precedente punto 1.1.

    Va comunque osservato che la motivazione, pur sintetica, si collega alla motivazione della sentenza di primo grado trascritta a pag. 20 del ricorso secondo la quale egli non aveva mai agito in qualità di erede e “il ricorrente non può far valere tale sua qualità neppure nella fase di merito” (si intende il merito possessorio); la questione riproposta con il motivo di ricorso attinge quindi l’interpretazione dell’iniziale domanda e la motivazione della Corte di Appello si salda con la più completa motivazione del primo giudice, espressamente richiamata.

    Il motivo, con riferimento alla violazione dell’art. 1146 c.c. è infondato perché l’azione possessoria, come detto in precedenza, avrebbe potuto essere esercitata anche nei confronti del convivente more uxorio, ancorché proprietario, ove avesse estromesso (come ha fatto l’erede) l’odierna intimata con clandestinità dall’unità abitativa e pertanto anche all’erede è precluso estromettere con violenza o clandestinità colei che esercitava sull’immobile un potere di fatto basato su di un interesse proprio e fondato su una relazione di convivenza meritevole di tutela. In ogni caso, la reintegrazione deve avvenire nella stessa situazione di fatto esistente al momento dello spoglio, nella quale la S. , dopo la morte del convivente, esercitava un potere di fatto basato su una detenzione qualificata senza la presenza di altri e la disposta reintegrazione non contrasta con la previsione di cui all’art. 1146 comma II c.c. tenuto conto che per effetto di una fictio iuris, il possesso del “de cuius” si trasferisce agli eredi i quali subentrano nel possesso del bene anche senza necessità di una materiale apprensione così che, mancando il precedente possesso “corpore”, la materiale apprensione con esclusione del detentore qualificato è stata legittimamente sanzionata con l’ordine di reintegrazione.

    Pertanto il primo quesito non è pertinente perché, pur essendo corretto affermare che il possesso dell’autore si trasferisce all’erede senza soluzione di continuità ed anche senza che l’erede abbia avuto il possesso del bene, ciò non preclude, per le ragioni già dette, l’azione di spoglio della convivente more uxorio nei confronti dell’erede del proprietario che non era nel possesso dei beni del de cuius prima della sua morte (ciò essendo stato escluso con valutazione di merito in entrambi i gradi del giudizio).

    Egualmente inconferente rispetto alla concreta fattispecie anche il secondo quesito con il quale si chiede se l’erede può invocare i principi di cui all’art. 1146 comma II c.c. unicamente agli effetti dell’usucapione oppure anche, in via di azione o eccezione nelle azioni a tutela del possesso: nella specie il ricorrente non ha esercitato una azione a tutela del possesso, ma è ricorso a vie di fatto estromettendo dall’immobile la detentrice qualificata ed ha operato una materiale apprensione del bene illegittima per le sue modalità.

    3. In conclusione il ricorso deve essere rigettato; non si pronuncia condanna alle spese in quanto la parte intimata e non soccombente non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

AVVOCATO FAMIGLIA DI FATTO BOLOGNA

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 6 febbraio – 31 agosto 2018, n. 21479

Presidente Manna – Relatore Casadonte

Fatti di causa

  1. Il presente giudizio trae origine dal ricorso notificato il 27 maggio 2013 da S.D. ad A.A. avverso la sentenza n.288 emessa dalla Corte d’appello di Genova depositata il 27 febbraio 2013 in accoglimento dell’impugnazione proposta da quest’ultimo nei confronti della sentenza di primo grado che aveva respinto la sua domanda di restituzione della somma di Euro 51.645,69, importo corrispondente a quanto da egli pagato per la ristrutturazione ed arredo di un appartamento intestato alla S. ove per qualche anno aveva vissuto con quest’ultima ed il figlio nato nel 1998 dalla loro relazione more uxorio. La richiesta di restituzione era stata proposta a titolo di arricchimento senza causa e/o di indebito oggettivo o ancora, in corso di causa, a titolo di mutuo.

2.Respinta in primo grado, la domanda attorea era stata accolta in appello con condanna della convenuta al relativo pagamento nonché alla rifusione delle spese nella misura di due terzi, con compensazione del residuo terzo. In particolare la Corte territoriale aveva ribadito che l’onere probatorio del fatto costitutivo del diritto alla restituzione incombe in capo all’attore e che nella fattispecie in esame le deduzioni attoree dimostravano che il contributo economico offerto per l’acquisto, la ristrutturazione e l’arredamento della casa, avevano determinato un oggettivo arricchimento per la S. , unica titolare dell’immobile, la quale, pertanto, nell’ipotesi di vendita avrebbe tratto profitto dal conferimento effettuato dall’A. . Tale arricchimento, tuttavia, non trovava giustificazione nell’obbligazione naturale perché l’attribuzione patrimoniale di lire 100.000.000 era stata effettuata nel contesto di una vita familiare in comune non connotata da particolare agiatezza e benessere, peraltro protrattasi per un periodo di tempo non lungo, sicché la dazione appariva “significativa” e, pertanto, estranea agli esborsi necessari alla condivisione della vita quotidiana. Conseguentemente, ad avviso della Corte, il mancato recupero dell’importo, una volta cessata la convivenza, configurava un ingiustificato impoverimento del solvens ed un ingiustificato arricchimento del l’accipiens che quale proprietaria dell’immobile continuava a fruirne e poteva liberamente disporne.

  1. La cassazione della sentenza è stata chiesta sulla base di sette motivi, cui resiste il controricorrente, che in prossimità dell’udienza ha depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ..

Ragioni della decisione

1.Va preliminarmente dato atto delle due eccezioni preliminari del controricorrente e riguardanti, la prima, la nullità della procura speciale apposta in calce al ricorso ed asseritamente non sufficientemente specifica nell’indicazione del procedimento cui si riferisce e, la seconda, l’inammissibilità del ricorso ex art. 360 bis n.1 cod. proc. civ. per avere la Corte deciso questioni di diritto in conformità alla giurisprudenza della Corte.

1.1. Le eccezioni sono entrambe infondate.

1.2. La procura speciale apposta in calce al ricorso per cassazione con l’esplicito riferimento al giudizio avanti alla Suprema Corte di cassazione, sezione civile, appare essere conforme con il principio generale sancito all’art. 83 u.co. cod. civ., secondo il quale la procura speciale riguarda soltanto un determinato grado del giudizio e, in questo caso, il solo procedimento avanti al giudice di legittimità. Inoltre, risulta rilasciata in epoca anteriore alla notificazione del ricorso contro il sig. A. e tuttavia dopo il deposito dell’impugnanda sentenza (così Cass. sentenza 28 marzo 2006, n. 7084; id. 8741/2017).

1.3. Parimenti infondata è l’eccezione di inammissibilità, atteso che la disposizione invocata va applicata secondo l’interpretazione di recente enunciata dalle Sezioni unite di questa Corte nella sentenza 21 marzo 2017 n.7155 di cui non ricorrono, nel caso di specie, i presupposti avuto riguardo ai singoli motivò posti a fondamento del ricorso.

  1. Passando all’esame del ricorso, si osserva che con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e artt. 325, 326, 327 cod. proc. civ. e 74 disp. att. cod. proc. civ. per non avere la Corte territoriale verificato, attraverso l’esame della prova della tempestiva notificazione della sentenza appellata, se l’impugnazione era stato proposta nel termine fissato, con il conseguente passaggio in giudicato della sentenza di prime cure.

2.1. Il motivo è infondato poiché la notifica della sentenza di primo grado è avvenuta il 13/1/2009 e l’atto di appello risulta notificato il 9/2/2009, e perciò l’impugnazione è tempestiva ai sensi dell’art. 325, secondo comma cod. proc. civ..

3.Con il secondo motivo si deduce la violazione dell’art. 342 comma 1 cod. proc. civ. per non essere specifici i motivi di appello con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

3.1. Il motivo, che è ammissibile in questa sede solo sotto il profilo della correttezza del procedimento interpretativo e della logicità del suo esito (cfr. Cass. 22/2/2005 n. 3538; id. n. 11738/2016) non è tuttavia fondato atteso che la Corte ha chiaramente individuato e provveduto sui due motivi di doglianza prospettati dall’appellante e cioè errore di diritto e difetto di motivazione, da una parte, ed erronea interpretazione delle risultanze istruttorie dall’altra. Peraltro, parte ricorrente non ha indicato dove e come ha eccepito tale asserito difetto di specificità avanti alla Corte territoriale, posto che l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone che la parte riporti, nel ricorso stesso, gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (cfr. Cass. n. 19410/2015).

  1. Con il terzo motivo parte ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 cod. civ. in quanto la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare l’improponibilità dell’azione per arricchimento senza causa per difetto di sussidiarietà, dal momento che il sig. A. aveva altre azioni per conseguire la restituzione dell’importo richiesto.

4.1.Il motivo è infondato poiché la Corte territoriale ha riconosciuto che fin dall’inizio del giudizio di merito parte attrice aveva impostato la domanda in termini di indebito pagamento o di arricchimento senza causa e che, se con riguardo al primo profilo la decisione del giudice di prime cure non era stata adeguatamente contrastata, lo era stata quella in relazione al mancato riconoscimento dell’arricchimento. Con riguardo a tale aspetto parte convenuta aveva contestato il diritto alla ripetizione eccependo l’inesistenza del diritto in ragione della qualificazione dell’attribuzione patrimoniale in termini di obbligazione naturale, fattispecie che è stata tuttavia esclusa. Il ragionamento svolto appare incensurabile e compatibile con il principio enucleato dal giudice di legittimità a mente del quale l’azione di ingiustificato arricchimento di cui all’art. 2041 cod. civ. può essere proposta solo quando ricorrano due presupposti: (a) la mancanza di qualsiasi altro rimedio giudiziale in favore dell’impoverito; (b) la unicità del fatto causativo dell’impoverimento sussistente quando la prestazione resa dall’impoverito sia andata a vantaggio dell’arricchito, con conseguente esclusione dei casi di cosiddetto arricchimento indiretto, nei quali l’arricchimento è realizzato da persona diversa rispetto a quella cui era destinata la prestazione dell’impoverito (Cassa. Sez. un. 24772/2008).Pertanto essendo stata ritenuta infondata per difetto dei presupposti l’azione di pagamento dell’indebito, era applicabile al caso di specie la generale azione di arricchimento senza causa.

  1. Con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2034 cod. civ. in rapporto alla teoria della presupposizione di cui all’art. 1353 cod. civ., all’art. 1375 e all’art. 1467 cod. civ. in relazione all’art. 360 comma 1, nn. 3,4 e 5 cod. proc. civ. laddove la Corte territoriale non avrebbe considerato nella valutazione della proporzionalità della dazione, l’esistenza del figlio nato dalla relazione sentimentale fra le parti, affidato alla madre e con lei convivente nella casa acquistata ed arredata con il contributo del sig. A. a seguito di un accordo in tal senso raggiunto dalle parti e recepito dal Tribunale per i Minorenni. In particolare la ricorrente si duole che la Corte non abbia considerato come, a fronte di tali circostanze di fatto, non sia stata fornita la prova della non proporzionalità ed adeguatezza della prestazione.

5.1. Il motivo è, come sottolineato dal P.M. e dal controricorrente, effettivamente espresso in termini poco chiari, cumulando censure diverse dell’art. 360 comma 1 cod. proc. civ.. In particolare, è inammissibile la censura concernente l’allegato vizio motivazionale, perché non formulata nei termini previsti dall’art. 360 comma 1, n. 5 cod. proc. civ. così come modificato dalla L. n. 134/2012. ed applicabile ratione temporis al ricorso in esame.

5.2.È parimenti inammissibile il richiamo all’allegata violazione degli artt. 1353, 1375 e 1467 cod. civ. non avendo prima d’ora, come peraltro riconosciuto a pag. 25 del ricorso, mai esplicitato il richiamo alla teoria della presupposizione e la richiesta di applicarla alla prestazione patrimoniale effettuata nell’ambito di una convivenza caratterizzata dalla nascita di un figlio, circostanza che faceva presumere una prospettiva di durata del legame rilevante ai fini della valutazione della proporzionalità ed adeguatezza della prestazione stessa.

5.3. Infondato è, invece, il motivo laddove censura l’inesistenza della prova della pretesa non proporzionalità atteso che la conclusione della Corte territoriale appare sorretta dal ricorso a massime di comune esperienza individuate sulla base delle allegate condizioni economiche e sociali non elevate. In presenza di un simile quadro patrimoniale e sociale caratterizzante la convivenza delle parti, l’esborso sostenuto dal sig. A. è stato ritenuto estraneo a quelli resi necessari dalla condivisione della vita quotidiana, con la conseguenza che il mancato recupero di detta somma configurava l’ingiustizia dell’arricchimento da parte della S. (in conformità a Cass. 11330/2009). Perciò, sul punto la Corte territoriale risulta aver fatto corretta applicazione dei consolidati principi giurisprudenziali invocati (e ribaditi da ultimo in Cass. n.1266 del 25/1/2016; id. 19578de1 30/9/2016).

6.Con il quinto motivo la ricorrente deduce, in via subordinata per il casi di mancato accoglimento della eccepita improponibilità della domanda ex art. 2041 cod. civ., il vizio di ultrapetizione ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ. per non avere la Corte considerato che la domanda di restituzione era subordinata all’eventuale vendita dell’appartamento.

6.1. Il motivo, che peraltro riguarda una censura nuova rispetto a quelle esaminate nella sentenza gravata, è infondato poiché il sig. A. ha insistito anche in appello nella domanda incondizionata di restituzione, limitandosi a ribadire che il ricavo incassato nel caso di vendita da parte della sig.ra S. era la dimostrazione dell’ingiusto arricchimento.

  1. Con il sesto motivo si deduce la violazione degli artt. 112 cod. proc. civ. e 2041 cod.civ. per extrapetizione in relazione alla quantificazione dell’indennizzo che sarebbe stato considerato quale debito di valore anziché di valuta e ciò sia in relazione all’art. 360 comma 1 n.3 che n. 4 e n. 5 cod. proc. civ..

7.1 Premesso che la censura ex art. 360 comma 1, n.5 cod.proc. civ. in termini di omessa motivazione è esclusa dal testo introdotto dalla legge n.134 del 2012 che la consente nei limiti del’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, il motivo è in parte qua inammissibile.

7.2. È, invece, infondato in relazione alla violazione di legge in quanto la Corte territoriale ha fatto applicazione di costanti principi giurisprudenziali in merito alla natura di credito di valore dell’indennizzo ex art. 2041 cod. civ. ed al riconoscimento della svalutazione monetaria e degli interessi con la relativa decorrenza (cfr. Cass. 1889 del 28/172013; id. n.10884 dell’11/5/2007).

  1. Il settimo motivo denuncia che nel caso di cassazione della sentenza impugnata debba essere statuito ai sensi dell’art. 384 comma 2 cod. proc civ. che il giudice di rinvio sia tenuto ad uniformarsi ai profili sui quali si è formato il giudicato.

8.1 Il motivo è assorbito dal rigetto di tutti i precedenti motivi.

  1. Atteso l’esito sfavorevole di tutti i motivi il ricorso va rigettato.

  2. Ricorrono, tuttavia, in relazione al disposto dell’art. 92 cod. proc. civ. applicabile ratione temporis nella versione introdotta con L. 263/2005, giusti motivi di compensazione sia avuto riguardo al rapporto personale di convivenza intercorso fra le parti che alla difficile prognosi sull’esito giuridico della causa.

  3. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

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