BULLISMO REAZIONE AI BULLI NESSUN RISARCIMENTO AL BULLO

BULLISMO REAZIONE AI BULLI NESSUN RISARCIMENTO AL BULLO

 

 

 

 

Nel corso di un litigio C.G. riceveva da R.F. un pugno in faccia che gli

provocava l’avulsione traumatica dell’incisivo superiore laterale di sinistra, la

lussazione dell’incisivo centrale ed escoriazioni al labbro.

Il procedimento penale a carico di R.F. terminava con sentenza di non luogo a

procedere emessa dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro.

Successivamente, con atto di citazione notificato il 30 settembre 2009, C.G.

conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Catanzaro, R.F. nonchè R.C.D.M. e

F.M.G., rispettivamente, padre e madre del danneggiante, per ottenerne la

condanna in solido al risarcimento dei danni subiti quantificati in Euro 18.000,00

La regola di causalità applicata dal giudice, adeguata all’ipotesi in cui il

destinatario di una provocazione anzichè reagire istintivamente e

contestualmente alla provocazione ricevuta, commisurandone modi e tempi,

covi una vendetta che sfoci in un atto di aggressione violenta che, sfilacciando

la dipendenza causale con il fatto che l’aveva originata, si pone alla base di una

nuova ed autonoma sequenza causale, si rileva inappagante, invece, nel caso

di colui che viene reiteratamente provocato e dileggiato e che reagisca alle

offese di cui è stato vittima. Viene ritenuta, infatti, una regola di esperienza che

colui che è reiteratamente aggredito reagisce come può per far cessare l’altrui

condotta lesiva (Cass. 08/11/2012, n. 19294).

Quando l’autore della reazione sia un adolescente, vittima di comportamenti

prevaricatori, aggressivi, mortificanti e reiterati nel tempo, occorre, in aggiunta,

tener conto che la sua personalità non si è ancora formata in modo saldo e

positivo rispetto alla sequela vittimizzante cui è stato supposto; è prevedibile,

infatti, che la sua reazione possa risolversi, a seconda dei casi, nell’adozione di

comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi, con costi

anche particolarmente elevati in termini emotivi, in forme di resilienza passiva e

autoconservative, evolvere verso forme di autodistruzione oppure tradursi,

come è avvenuto nel caso di specie, nell’assunzione di comportamenti

esternalizzati aggressivi.

Pur dovendosi neutralizzare e condannare l’istinto di vendetta del minore

bullizzato, è innegabile che la risposta ordinamentale non possa essere solo

quella della condanna dell’atto reattivo come comportamento illecito a sè stante,

ignorando le situazioni di privazione e di svantaggio che ne costituivano il

sostrato, non solo perchè l’ignoranza e la sottovalutazione possono (persino)

attivare un circolo negativo di vittimizzazione ulteriore, ma anche perchè il

bullismo non dà vita ad un conflitto meramente individuale, come dimostrano le

rilevazioni statistiche, e richiede un coacervo di interventi coordinati che, oltre a

contenere il fenomeno, fungano da diaframma invalicabile che si interponga tra

l’autore degli atti di bullismo e le persone offese, anche onde rendere del tutto

ingiustificabile la reazione di queste ultime.

In assenza di prove circa come le istituzioni, la scuola, in particolare, fossero

intervenute per arginare il fenomeno del bullismo e per sostenere l’odierno

ricorrente, quindi mancando anche la prova della ricorrenza di espressioni di

condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai cosiddetti bulli,

non era legittimo attendersi da parte di R.F., adolescente, una reazione

razionale, controllata e non emotiva.

Nel caso di specie, non solo non è fuori luogo, ma è persino doveroso che

l’ordinamento si dimostri sensibile verso coloro che sono esposti continuamente

a condizioni vittimizzanti idonee a provocare e ad amplificare le reazioni rispetto

alle sollecitazioni negative ricevute; soprattutto ove la vittima venga privata del

meccanismo repressivo istituzionale dell’illecito e, come sembra sia avvenuto in

questo caso, venga lasciata sola nell’affrontare il conflitto. Non una sola parola

è stata spesa, infatti, per chiarire se la scuola si fosse fatta carico di predisporre

interventi di contrasto della piaga del bullismo attraverso un programma serio e

articolato fondato su specifiche direttive psicopedagogiche e su forme di

coinvolgimento dei genitori.

Sicchè è opinione di questo Collegio che l’accertamento di una responsabilità

individuale decontestualizzata non sia in grado di garantire una giustizia

riparativa efficace.

Nell’attesa che si diffondano forme di giustizia riparativa specificamente

calibrate sul fenomeno del bullismo, ferma la necessaria condanna tanto dei

comportamenti prevaricatori e vessatori quanto di quelli reattivi, la risposta

giuridica, nel caso di specie, non avrebbe dovuto ignorare le condizioni di

umiliazione a cui l’adolescente in questione è provato fosse stato ripetutamente

sottoposto.

E senza mortificare le regole causali, nè utilizzarle come giudizi di valore, alla

luce del risultato che si intendeva conseguire in termini di responsabilità,

tarando le prime sul secondo, il giudice avrebbe dovuto tener conto della loro

permeabilità da parte di istanze di giustizia sostanziale, onde pervenire “alla più

corretta delle soluzioni possibili” (Cass. 21/7/2011, n. 15991), anche

abbandonando il piano naturalistico proprio della causalità materiale per

accedere ad un piano di valutazione della dimensione complessiva della

convergenza e dell’interazione di tutti i fattori concausali all’interno della più

ampia fattispecie di responsabilità civile.

Se il metodo generalizzante, cioè la regola che ha ispirato la decisione

impugnata, ha permesso di ricostruisce in astratto l’evento, semplificandolo, ad

altro risultato il giudice avrebbe potuto approdare, ove si fosse avvalso del

criterio della causalità individuale, la quale avrebbe avuto il pregio di focalizzare

l’analisi sull’evento per come verificatosi e che, differendo dalla causalità

generale non già per il criterio adoperato, ma solo per la base del giudizio,

avrebbe messo il giudicante nella condizione di attribuire il giusto peso, in

termini di spiegazione causale, a tutti gli elementi concreti e alle circostanze del

caso reputate rilevanti.

Come la dottrina mette in risalto nel giudizio di causalità generale, infatti, la

base è idealtipica e, pertanto, depurata di contenuti descrittivi; nel giudizio di

causalità individuale, per contro, la base è necessariamente più ricca di

elementi, dato che nel modello di spiegazione causale devono essere inseriti

tutti gli elementi concreti reputati rilevanti.

Questa sezione della Corte regolatrice ha già avuto occasione di affermare che,

pur non spettando al giudice esprimere valutazioni di tipo etico e sociale

relativamente al comportamento dei consociati, non deve ritenersi preclusa la

possibilità di usare la responsabilità civile allo scopo di offrire risposte,

ovviamente rigorosamente incardinate sul piano giuridico, capaci di adattarsi al

contesto situazionale di riferimento, sensibili ai mutamenti sociali del tempo, e

capace di collocarsi diaframmaticamente nelle dinamiche interpersonali che

promanano dai sempre più frequenti processi vittimogeni che coinvolgono

soprattutto le giovani generazioni (Cass. 12/04/2018, n. 9059).

Per di più, la giurisprudenza di questa Corte ha in varie occasioni ribadito che –

allo scopo di pervenire ad una soluzione che sia tra le disponibili la migliore e la

più aderente alle caratteristiche uniche del caso concreto – è permesso al

giudice, quando non sia più in questione l’accertamento del nesso di

derivazione causale, perchè il danno è eziologicamente ascrivile alla condotta

colpevole dell’agente, nella fase di determinazione del danno-conseguenza

risarcibile, sul piano della determinazione dell’ammontare del quantum

risarcitorio dovuto, servirsi della valutazione equitativa ex art. 2056 c.c. e

determinare, quindi, la compensazione economica ritenuta socialmente

adeguata del pregiudizio, cioè quella che, a fronte di un danno certo – la

valutazione equitativa non può surrogarsi alla prova della ricorrenza del danno –

ne determini l’ammontare tenuto conto della compensazione che la coscienza

sociale in un determinato momento storico ritenga equa, tenuto conto di tutte le

specificità del caso concreto ed in particolare dei vari fattori incidenti sul

verificarsi della lesione e sulla sua gravità (Cass. 29/2/2016, n. 3893; Cass.

21/08/2018 20829; Cass. 18/04/2019, n. 10812).

 

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE
Ordinanza 20 giugno – 10 settembre 2019, n. 22541

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente – Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere – Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere – Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5096/2018 proposto da:

– ricorrenti – contro

– controricorrente –

F.M.G., R.C.D.M., R.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA RICCARDO

GRAZIOLI LANTE 5, presso lo studio dell’avvocato SONIA FRANZESE, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARMELO COMEGNA;

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NEMORENSE 18, presso lo

studio dell’avvocato MARIO MURANO, rappresentato e difeso dall’avvocato

VINCENZO MARSICO;

avverso la sentenza n. 1246/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO;

Svolgimento del processo

Resiste con controricorso C.G..

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 20/06/2019

dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

R.F., R.C.D.M. e F.M.G. ricorrono per la cassazione della sentenza n.

1246/2017 della Corte d’Appello di Catanzaro, depositata il 3 luglio 2017,

formulando due motivi.

Nel corso di un litigio C.G. riceveva da R.F. un pugno in faccia che gli

provocava l’avulsione traumatica dell’incisivo superiore laterale di sinistra, la

lussazione dell’incisivo centrale ed escoriazioni al labbro.

Il procedimento penale a carico di R.F. terminava con sentenza di non luogo a

procedere emessa dal Tribunale per i minorenni di Catanzaro.

Successivamente, con atto di citazione notificato il 30 settembre 2009, C.G.

conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Catanzaro, R.F. nonchè R.C.D.M. e

F.M.G., rispettivamente, padre e madre del danneggiante, per ottenerne la

condanna in solido al risarcimento dei danni subiti quantificati in Euro 18.000,00

o nella diversa somma giudizialmente accertata.

Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza n. 2159/2013, dichiarava il difetto di

legittimazione passiva dei genitori di R.F., accertava il concorso di colpa del

danneggiato nel verificarsi dell’evento dannoso e, per l’effetto, condannava R.F.

a corrispondere a C.G. la somma di Euro 1.765,50, al netto di interessi e

rivalutazione, ed alla rifusione della metà delle spese di lite oltre al pagamento

in solido con C.G. delle spese di CTU. La sentenza veniva impugnata, in via

principale, da C.G. per avere erroneamente escluso la legittimazione passiva

dei genitori di R.F., per avere accertato il pari concorso di colpa nella

causazione dell’evento, per aver posto in solido anche a suo carico le spese di

CTU. Con appello incidentale, R.F., R.C.D.M. e F.M.G. contestavano il concorso

di colpa di R.F., adducendo che fosse stato vittima di bullismo, e chiedevano

che fosse accertato il suo esonero da responsabilità.

La Corte d’Appello, con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione,

accoglieva l’appello principale e riformava la decisione di prime cure,

condannando R.F. ed i suoi genitori in solido al risarcimento di Euro 14.286,43 a

favore di C.G., al pagamento integrale delle spese di lite di entrambi i gradi di

giudizio ed al pagamento della CTU; in particolare, riteneva che i genitori di R.F.

fossero responsabili in solido con il figlio dei danni da questi cagionati ai sensi

dell’art. 2048 c.c., che la reazione di R.F. fosse causa autonoma del danno e

non la consecuzione al fatto della provocazione, che, essendo il

comportamento offensivo e persecutorio della vittima collocato in una fase

temporale diversa da quella della reazione di R.F., quest’ultimo non avesse

agito per legittima difesa, ma per aggredire fisicamente il proprio rivale.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione

dell’art. 2048 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e l’omesso esame

di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Gli assunti cassatori sono: a) che il giudice a quo non abbia esaminato le

motivazioni della sentenza del Tribunale per i minorenni di Catanzaro, addotta

come prova liberatoria ai sensi dell’art. 2048 c.c., per la parte contenente

l’analisi sulla persona e sulla personalità del danneggiante, dalla quale

emergeva che il minore non aveva precedenti penali, non era dedito a vita

irregolare o dissipata, ma orientato allo studio e che l’episodio che lo aveva

coinvolto era stato occasionale; b) che abbia privilegiato, sotto il profilo

probatorio, solo il fatto che i genitori avessero giustificato l’azione del figlio che

avrebbe reagito fisicamente ad una serie di soprusi e atti di bullismo, omettendo

di considerare che la reazione dell’adolescente, a prescindere dalla contestualit

à od immediatezza rispetto all’offesa ricevuta, non poteva essere evitata dai

genitori, tenuto conto dell’età e del contesto (l’episodio si era svolto lontano da

casa, nelle adiacenze della scuola, in un paese diverso da quello di residenza,

lontano dalla sfera di controllo dei genitori).

Il motivo è inammissibile.

I ricorrenti danno prova di pretendere un inammissibile diverso esito degli

accertamenti di fatto demandato al giudice di merito.

In primo luogo, l’omesso esame di elementi istruttori non rileva in sè e per sè,

ma solo quale elemento meramente sintomatico e confermativo della

inesistenza della motivazione su un fatto decisivo del giudizio, il cui esame, non

del tutto omesso, è stato illustrato e soprattutto deciso in maniera talmente

incerta e lacunosa da determinare la nullità della sentenza per assenza della

motivazione ex art. 132 c.p.c., n. 4.

Non è questo il caso di specie.

La sentenza ha ritenuto che i genitori del minore danneggiante non avessero

provato di avere reso il proprio figlio capace di dominare i suoi istinti, di

fronteggiare le altrui offese e di rispettare gli altri, sì da andare esenti dalla

presunzione di responsabilità di cui all’art. 2048 c.c.. Gli odierni ricorrenti si

erano limitati in primo grado ed in appello ad invocare l’esenzione da

responsabilità del proprio figlio, giustificandone il comportamento antigiuridico

quale reazione agli atti di bullismo ed ai soprusi di cui la vittima lo avrebbe reso

oggetto, dimostrando essi stessi, in sostanza, di non aver percepito il disvalore

della condotta del figlio e la gravità del fatto imputatogli, fornendo indirettamente

la prova del difetto di un adeguato insegnamento educativo non avendo fornito

al minore gli strumenti per ritenere non solo illecito, ma anche non giustificabile

un comportamento violento quale quello adottato.

Come questa Corte insegna: “L’educazione è fatta non solo di parole, ma anche

e soprattutto di comportamenti”: Cass. 28/08/2009, n. 18804.

In altri termini, dalla tipologia di fatto illecito, dalle modalità in cui ebbe a

verificarsi e dalle giustificazioni difensive dei genitori, la Corte territoriale, in

linea con l’orientamento di questa Corte, ha ritenuto che i genitori non avessero

vinto la presunzione di responsabilità su di loro gravante.

E’ vero che non vi è alcun riferimento nella sentenza impugnata alla decisione

  1. 154/2008 del Tribunale per i minorenni di Catanzaro, pur utilizzabile quale

prova atipica soggetta al prudente apprezzamento del giudice, ma tale

omissione non assume alcuna rilevanza a fini cassatori, non solo perchè il

giudice non è tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le

deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e

circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente

incompatibili con la decisione adottata (Cass. 02/08/2016, n. 16056), ma anche

perchè l’eventuale omesso esame della decisione non ha valenza decisiva, nel

senso che non è, di per sè, idonea a giustificare un diverso esito della

decisione: e non perchè la sentenza penale, escludendo la responsabilità del

minore, avesse fatto salva la rilevanza del comportamento illecito ad altri fini,

essendo inevitabile il riferimento esclusivo alla condotta del soggetto agente,

ma per effetto del principio di autonomia del giudizio civile rispetto a quello

penale che consente al giudice civile di procedere ad una valutazione del

quadro probatorio con criteri diversi rispetto a quelli utilizzati nel giudizio penale,

giustificandosi un approdo diverso rispetto a quello cui perviene la sentenza

penale (cfr., da ultimo, Cass. 12/06/2019, n. 25160).

Peraltro, va ricordato che la prova liberatoria richiesta ai genitori dall’art. 2048

c.c., di non aver potuto impedire il fatto illecito commesso dal figlio minore coincide, normalmente, con la dimostrazione, oltre che di aver impartito al

minore un’educazione consona alle proprie condizioni sociali e familiari, anche

di aver esercitato sul minore una vigilanza adeguata all’età e finalizzata a

correggere comportamenti non corretti e, quindi, meritevoli di un’ulteriore o

diversa opera educativa.

A tal fine, non essendo necessario che il genitore provi la costante ininterrotta

presenza fisica accanto al figlio, pena la coincidenza dell’obbligo di vigilanza

con quello di sorveglianza, ma che per l’educazione impartita, per l’età del figlio

e per l’ambiente in cui egli viene lasciato libero di muoversi, risultino

correttamente impostati i rapporti del minore con l’ambiente extrafamiliare,

facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano costituire

fonte di pericoli per sè e per i terzi, è del tutto irrilevante chè il fatto illecito si sia

svolto lontano da casa, giacchè l’obbligo di vigilanza per i genitori del minore

capace non si pone come autonomo rispetto all’obbligo di educazione, ma va

correlato a quest’ultimo, nel senso che i genitori devono vigilare che

l’educazione impartita sia consona ed idonea al carattere ed alle attitudini del

minore e che quest’ultimo ne abbia “tratto profitto”, ponendola in atto, in modo

da avviarsi a vivere autonomamente, ma correttamente (Cass. 22/04/2009, n.

9556).

  1. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 360 c.p.c.,

comma 1, n. 3, per violazione o falsa applicazione in particolare dell’art. 1227

c.c. e la violazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, anche in relazione al n. 5, c.p.c.

per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di

discussione tra le parti, rappresentato dalla mancata escussione di una

testimone.

La tesi sostenuta è che la Corte territoriale abbia errato nel ritenere inapplicabile

l’art. 1227 c.c., in ragione del fatto che R.F. si era determinato a tenere la

condotta da cui era derivato l’evento in un momento diverso da quello in cui

aveva subito l’aggressione, perchè, invece avrebbe dovuto tener conto dei

fenomeni di bullismo che avevano preceduto la reazione, senza i quali l’evento

non si sarebbe determinato.

Il motivo numero due è fondato e, pertanto, merita accoglimento.

La Corte territoriale ha del tutto sbrigativamente negato qualunque rilievo al

comportamento ripetutamente provocatorio e offensivo di cui R.A. era stato

fatto oggetto da parte della “vittima”, limitandosi ad affermare

paternalisticamente che R.A. non avrebbe dovuto reagire alle provocazioni

ricevute.

La decisione, evidentemente incapace di penetrare il contesto situazionale in

cui si erano svolti i fatti, ha, di conseguenza, omesso di adattarvi la regola

causale, nel senso che verrà chiarito.

La regola di causalità applicata dal giudice, adeguata all’ipotesi in cui il

destinatario di una provocazione anzichè reagire istintivamente e

contestualmente alla provocazione ricevuta, commisurandone modi e tempi,

covi una vendetta che sfoci in un atto di aggressione violenta che, sfilacciando

la dipendenza causale con il fatto che l’aveva originata, si pone alla base di una

nuova ed autonoma sequenza causale, si rileva inappagante, invece, nel caso

di colui che viene reiteratamente provocato e dileggiato e che reagisca alle

offese di cui è stato vittima. Viene ritenuta, infatti, una regola di esperienza che

colui che è reiteratamente aggredito reagisce come può per far cessare l’altrui

condotta lesiva (Cass. 08/11/2012, n. 19294).

Quando l’autore della reazione sia un adolescente, vittima di comportamenti

prevaricatori, aggressivi, mortificanti e reiterati nel tempo, occorre, in aggiunta,

tener conto che la sua personalità non si è ancora formata in modo saldo e

positivo rispetto alla sequela vittimizzante cui è stato supposto; è prevedibile,

infatti, che la sua reazione possa risolversi, a seconda dei casi, nell’adozione di

comportamenti aggressivi internalizzati che possono trasformarsi, con costi

anche particolarmente elevati in termini emotivi, in forme di resilienza passiva e

autoconservative, evolvere verso forme di autodistruzione oppure tradursi,

come è avvenuto nel caso di specie, nell’assunzione di comportamenti

esternalizzati aggressivi.

Pur dovendosi neutralizzare e condannare l’istinto di vendetta del minore

bullizzato, è innegabile che la risposta ordinamentale non possa essere solo

quella della condanna dell’atto reattivo come comportamento illecito a sè stante,

ignorando le situazioni di privazione e di svantaggio che ne costituivano il

sostrato, non solo perchè l’ignoranza e la sottovalutazione possono (persino)

attivare un circolo negativo di vittimizzazione ulteriore, ma anche perchè il

bullismo non dà vita ad un conflitto meramente individuale, come dimostrano le

rilevazioni statistiche, e richiede un coacervo di interventi coordinati che, oltre a

contenere il fenomeno, fungano da diaframma invalicabile che si interponga tra

l’autore degli atti di bullismo e le persone offese, anche onde rendere del tutto

ingiustificabile la reazione di queste ultime.

In assenza di prove circa come le istituzioni, la scuola, in particolare, fossero

intervenute per arginare il fenomeno del bullismo e per sostenere l’odierno

ricorrente, quindi mancando anche la prova della ricorrenza di espressioni di

condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai cosiddetti bulli,

non era legittimo attendersi da parte di R.F., adolescente, una reazione

razionale, controllata e non emotiva.

Nel caso di specie, non solo non è fuori luogo, ma è persino doveroso che

l’ordinamento si dimostri sensibile verso coloro che sono esposti continuamente

a condizioni vittimizzanti idonee a provocare e ad amplificare le reazioni rispetto

alle sollecitazioni negative ricevute; soprattutto ove la vittima venga privata del

meccanismo repressivo istituzionale dell’illecito e, come sembra sia avvenuto in

questo caso, venga lasciata sola nell’affrontare il conflitto. Non una sola parola

è stata spesa, infatti, per chiarire se la scuola si fosse fatta carico di predisporre

interventi di contrasto della piaga del bullismo attraverso un programma serio e

articolato fondato su specifiche direttive psicopedagogiche e su forme di

coinvolgimento dei genitori.

Sicchè è opinione di questo Collegio che l’accertamento di una responsabilità

individuale decontestualizzata non sia in grado di garantire una giustizia

riparativa efficace.

Nell’attesa che si diffondano forme di giustizia riparativa specificamente

calibrate sul fenomeno del bullismo, ferma la necessaria condanna tanto dei

comportamenti prevaricatori e vessatori quanto di quelli reattivi, la risposta

giuridica, nel caso di specie, non avrebbe dovuto ignorare le condizioni di

umiliazione a cui l’adolescente in questione è provato fosse stato ripetutamente

sottoposto.

E senza mortificare le regole causali, nè utilizzarle come giudizi di valore, alla

luce del risultato che si intendeva conseguire in termini di responsabilità,

tarando le prime sul secondo, il giudice avrebbe dovuto tener conto della loro

permeabilità da parte di istanze di giustizia sostanziale, onde pervenire “alla più

corretta delle soluzioni possibili” (Cass. 21/7/2011, n. 15991), anche

abbandonando il piano naturalistico proprio della causalità materiale per

accedere ad un piano di valutazione della dimensione complessiva della

convergenza e dell’interazione di tutti i fattori concausali all’interno della più

ampia fattispecie di responsabilità civile.

Se il metodo generalizzante, cioè la regola che ha ispirato la decisione

impugnata, ha permesso di ricostruisce in astratto l’evento, semplificandolo, ad

altro risultato il giudice avrebbe potuto approdare, ove si fosse avvalso del

criterio della causalità individuale, la quale avrebbe avuto il pregio di focalizzare

l’analisi sull’evento per come verificatosi e che, differendo dalla causalità

generale non già per il criterio adoperato, ma solo per la base del giudizio,

avrebbe messo il giudicante nella condizione di attribuire il giusto peso, in

termini di spiegazione causale, a tutti gli elementi concreti e alle circostanze del

caso reputate rilevanti.

Come la dottrina mette in risalto nel giudizio di causalità generale, infatti, la

base è idealtipica e, pertanto, depurata di contenuti descrittivi; nel giudizio di

causalità individuale, per contro, la base è necessariamente più ricca di

elementi, dato che nel modello di spiegazione causale devono essere inseriti

tutti gli elementi concreti reputati rilevanti.

Questa sezione della Corte regolatrice ha già avuto occasione di affermare che,

pur non spettando al giudice esprimere valutazioni di tipo etico e sociale

relativamente al comportamento dei consociati, non deve ritenersi preclusa la

possibilità di usare la responsabilità civile allo scopo di offrire risposte,

ovviamente rigorosamente incardinate sul piano giuridico, capaci di adattarsi al

contesto situazionale di riferimento, sensibili ai mutamenti sociali del tempo, e

capace di collocarsi diaframmaticamente nelle dinamiche interpersonali che

promanano dai sempre più frequenti processi vittimogeni che coinvolgono

soprattutto le giovani generazioni (Cass. 12/04/2018, n. 9059).

Per di più, la giurisprudenza di questa Corte ha in varie occasioni ribadito che –

allo scopo di pervenire ad una soluzione che sia tra le disponibili la migliore e la

più aderente alle caratteristiche uniche del caso concreto – è permesso al

giudice, quando non sia più in questione l’accertamento del nesso di

derivazione causale, perchè il danno è eziologicamente ascrivile alla condotta

colpevole dell’agente, nella fase di determinazione del danno-conseguenza

risarcibile, sul piano della determinazione dell’ammontare del quantum

risarcitorio dovuto, servirsi della valutazione equitativa ex art. 2056 c.c. e

determinare, quindi, la compensazione economica ritenuta socialmente

adeguata del pregiudizio, cioè quella che, a fronte di un danno certo – la

valutazione equitativa non può surrogarsi alla prova della ricorrenza del danno –

ne determini l’ammontare tenuto conto della compensazione che la coscienza

sociale in un determinato momento storico ritenga equa, tenuto conto di tutte le

specificità del caso concreto ed in particolare dei vari fattori incidenti sul

verificarsi della lesione e sulla sua gravità (Cass. 29/2/2016, n. 3893; Cass.

21/08/2018 20829; Cass. 18/04/2019, n. 10812).

Ne conseguono: l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, la cassazione

della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e il rinvio della

controversia alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione che

procederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2019.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e rinvia la controversia alla

Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione, anche per la

liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della

Corte di Cassazione, il 20 giugno 2019.